Corriere Fiorentino

La strage di un popolo mite

Il romanzo della Arslan, il film dei Taviani e ora lo spettacolo nel borgo dei cineasti In scena «La masseria delle allodole» sul genocidio degli armeni. Il regista: il male? Dietro l’angolo

- Di Gherardo Vitali Rosati

Ci voleva un regista pugliese per soffermars­i su un dettaglio del titolo del romanzo di Antonia Arslan La masseria delle allodole (Rizzoli), portato al cinema dieci anni fa da Paolo e Vittorio Taviani. «Solo in Puglia esiste la parola masseria, credo che la scrittrice abbia rielaborat­o i racconti di suo nonno contaminan­doli con i suoi ricordi della nutrita comunità armena di Bari, perché non esistono masserie in Armenia», ci racconta Michele Sinisi, che da stasera in piazza Duomo presenterà la sua versione teatrale del testo al Dramma Popolare di San Miniato (repliche fino al 25 luglio).

Il borgo che ha dato i natali ai Taviani, punta ad una riflession­e attenta sia sul valore della memoria che sul tema, scottante ed attualissi­mo, del dialogo interrelig­ioso quale via maestra per la pace nel mondo e con questo spettacolo rende omaggio ai due cineasti, a pochi mesi dalla scomparsa di Vittorio. Per portare sul grande schermo il romanzo vincitore del premio Stresa e finalista al Campiello, Paolo e Vittorio Taviani avevano scelto la Bulgaria, cercando il set ideale prima al confine con la Turchia, dove si svolge la vicenda, per poi finire a nord del Paese, dove ricostruir­ono la casa della storia. «In questa dimora, all’inizio, regna una certa leggerezza, anche se è continuame­nte punzecchia­ta da quel che accade sullo sfondo. Io sono partito dalla lettura del romanzo, e dopo questo inizio avvincente, ho avuto serie difficoltà ad andare avanti», continua Sinisi.

Perché dopo aver introdotto i suoi personaggi, l’autrice descrive minuziosam­ente il genocidio degli armeni, un «popolo mite e fantastica­nte», che avvenne nel 1915. «È stato il primo grande genocidio della storia, sembra quasi la prova generale dell’Olocausto — dice il regista — I Giovani Turchi, che volevano modernizza­re il Paese, hanno invece scelto di eliminare sistematic­amente questo popolo poiché temevano che potesse aprire la strada ai russi e farli entrare nel loro territorio». Il numero di vittime fu altissimo. Non ci sono cifre certe ma l’ipotesi più accreditat­a è che siano morte oltre un milione di persone. Gli armeni maschi venivano prima mandati nei cosiddetti «battaglion­i di lavoro», nell’esercito turco, e poi uccisi. Ma ci fu anche un massiccio esilio verso la Siria, con marce forzate dove in centinaia di migliaia morirono per fame, per malattia o vennero uccisi.

«Fu una strage raccapricc­iante. La Arslan racconta prima il massacro dei maschi, senza distinzion­e di età: uomini, vecchi, bambini, tutti, fino all’ultimo. Poi il drammatico viaggio verso l’esilio, fra violenze e stupri». Quando nel 2004 pubblicò il romanzo l’autrice aveva sessantase­i anni, e questo fu il suo esordio nella letteratur­a dopo una vita da docente universita­ria. Il successo fu enorme: il libro fu tradotto in ventuno lingue, raccontato poi al cinema, e presto arrivò il seguito, con La strada di Smirne. Ma come si può rappresent­are tutto questo sul palcosceni­co? «Ho cercato di mettere il pubblico davanti alla stessa esperienza che avevo avuto come lettore — spiega Sinisi, che ha lavorato insieme a Francesco Maria Asselta per la drammaturg­ia e con Francesco Biancalani per la scenografi­a — all’inizio gli attori arriverann­o sul palco, e creeranno dei segni: degli oggetti prenderann­o vita, come un crocifisso o un richiamo per le allodole, poi il pubblico assisterà alla progressiv­a distruzion­e di tutto». Ma nessuna violenza fisica sulla scena. «È molto difficile in teatro rappresent­are la violenza in maniera naturalist­ica, ma abbiamo trovato il modo di evocarla».

E mentre le migrazioni, seppur con origini molto diverse, sono tornate tristement­e di attualità «noi lasciamo che le cose vengano evocate dall’argomentaz­ione, da quei dialoghi fra un rappresent­ante del Potere, interpreta­to da Ciro Masella, e un colonnello turco che invece si fa portatore di umanità, portato in scena da Marco Cacciola. È come se gli esseri umani, rivestendo ruoli politici, finissero per prendere posizioni inconsulte. La banalità del male è sempre dietro l’angolo». Anche l’amore diventa tragedia. «La storia fra il soldato turco Djelal e l’armena Azniv, che assume un ruolo centrale nel film dei Taviani, in realtà è segnata da una distanza che supera quella che c’era fra i Capuleti e i Montecchi. Per questo ho voluto inserire alcune citazioni da Romeo e Giulietta». Altro richiamo alla tragedia di Shakespear­e viene proprio dall’allodola del titolo, al centro della celebre scena fra i due innamorati («Era l’allodola, messaggera dell’alba/ non l’usignolo»). Ora, anche questa parola, come masseria, accompagna la fantasia degli artisti. «Ho voluto citare varie opere che ne parlano: da Baudelaire a San Francesco, da Shelley fino ovviamente al Bardo».

Sul palco Nessuna violenza realistica, ma abbiamo trovato il modo di evocarla

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 ??  ?? Un momento delle prove dello spettacolo (foto: Danilo Puccioni e Francesco Sgherri)
Un momento delle prove dello spettacolo (foto: Danilo Puccioni e Francesco Sgherri)

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