Maestro rock
Peppe Vessicchio e la notte al Franchi «Non sarà karaoke»
Basta dire «dirige il maestro…». Tre parole con un’unica possibile prosecuzione. Perché chiunque risponderà: «Peppe Vessicchio». Un nome che alimenta la propria fama nell’assenza, del nome. «Un paradosso», dice lui. Lo dice ridendo sotto quei grandi, grigi, rassicuranti baffi che sono sinonimo di Festival di Sanremo. Il paradosso di una fama, della riconoscibilità di un «brand», che trae forza dall’omissione dello stesso. «Ci ho riflettuto a lungo» dice il maestro di tutti gli italiani.
E a quali conclusioni è giunto, Peppe Vessicchio?
«In un periodo storico in cui sembra che il presenzialismo sia tutto, indispensabile per affermarsi nella politica quanto nella musica, nello show business, io dimostro il contrario. Senza nemmeno averlo fatto apposta».
Il fenomeno è nato da sé. Grazie anche ai social.
«Proprio il non badare al mio nome mi ha portato a diventare famoso in questo modo. Come l’essere diventato un personaggio amatissimo sui social network senza che io abbia mai avuto una pagina Facebook o un account Instagram. Nemmeno navigo in rete. Sono tutti paradossi. Che in un certo senso, credo, mettono coloro che in rete ci vivono in una sorta di condizione di pace e tranquillità, perché io che ne sono fuori non posso sfruttare in alcun modo la loro benevolenza».
E fu così che un serio, sobrio, austero direttore d’orchestra napoletano è diventato un’icona pop. Ora chiamato a guidare la più grande, scompaginata, improvvisata orchestra che si possa immaginare: quella di «Rockin’1000».
«Quando me lo hanno proposto, ho sorriso. Un sorriso
Tutto è guidato da sincronismi in cuffia, sono un direttore abituato al gesto, ma davanti a tutte quelle persone c’è poco da gesticolare Chi ti vede? Tra Oasis e Foo Fighters ci sarà spazio anche per Bach
così spontaneo che mi ha dato il senso della gradita leggerezza di ciò che mi si prospettava: 1.500 musicisti di tutte le età e i livelli che stanno di fatto andando a una festa, riuniti intorno a un linguaggio universale, il rock, che più rappresenta il Novecento a livello popolare, al di là di generazioni, culture, lingue».
È una manifestazione di massa che per la sua quarta edizione arriva a Firenze. Domani alle 21 allo Stadio Franchi lei dirigerà oltre a 300 chitarre, 250 bassi, 250 batterie, 300 voci, 250 fiati, 50 percussioni. Lo scopo è benefico: contro la droga, per San Patrignano. E con un’ospite star come Courtney Love, la vedova di Kurt Cobain.
«Con quel bellissimo senso di comunione in nome della musica in cui le persone trovano quella pace che nemmeno lo sport riesce più a dare». Pensa alle Olimpiadi? «Una volta le Olimpiadi avevano come obiettivo l’incontro tra i popoli, oggi la cultura della separazione è imperante anche lì. Ma dove ha smesso di arrivare lo sport, arriva il rock».
Rispetto al suo lavoro «normale», qual è la cosa più stimolante e quale la più disarmante di Rockin’1000?
«L’aspetto più rassicurante è che siamo supportati da un’organizzazione super efficiente: non scadiamo nel karaoke. Il più disarmante? Che tutto è guidato da sincronismi in cuffia. Sono un direttore, abituato al “gesto”, ma davanti a 1.500 persone, c’è poco da gesticolare. Chi ti vede?».
Da maestro in frac, quali sono i brani rock del cuore?
«Il primo è Won’t get fooled again dei The Who, che appartiene alla mia stagione. Un pezzo rivoluzionario con dentro un monito platonico: mette in guardia chi vuole conquistare il potere con la rivoluzione dai pericoli del potere che prenderanno, quello di cadere nelle stesse debolezze di esercizio di tirannia e demagogia di ciò che combattono. E detto da chi allora era sulle barricate...».
Il resto del podio?
«Child in time dei Deep Purple: energia tribale, dinamismo. Poi, da studioso della musica, dico Bourée dei Jethro Tull, riarrangiamento per flauto di una Suite di Bach. Vedere Bach suonato da gente coi capelli lunghi mi fece grande effetto da giovane».
Avrei scommesso nei Pink Floyd...
«Non ho citato nemmeno i Led Zeppelin. E per lo stesso motivo: entrambe grandissime band ma ciò che cerco è quell’elemento di spontaneità tribale che gruppi intellettuali come Floyd e Zeppelin non hanno».
In scaletta avete messo Oasis, Foo Fighters, Springsteen, Stones. E Bach riarrangiato. Altri maestri non avrebbero accettato di «abbassare» Bach al livello di un evento di massa che per sua natura ha standard di esecuzioni basici.
«Il Preludio di Bach è un brano immortale, semplicissimo, diretto, abbordabile, è il rock della sua epoca. L’augurio che faccio ai grandi brani di ogni genere è di avere una vita centenaria come quella del Preludio».
Con che spirito lo affronta? «Con la consapevolezza che dove non arriva l’esecuzione, arriva la provocazione».
Quali sono le diverse «lezioni» che le ha lasciato la tv, da una parte Sanremo e dall’altra «Amici»?
«Amici mi ha dato la grandissima opportunità di ascoltare migliaia di voci ai provini. Ha fatto nascere in me la voglia di saperne di più e ho iniziato a fare corsi di vocologia. Sanremo è una festa comandata: nella mia famiglia viene Natale, Capodanno, Pasqua... e Sanremo. Una ritualità che ogni tanto ci lascia anche qualcosa di interessante». Anche quest’ultimo?
«Sì: l’inedito di Dalla e la sobrietà con cui Ron lo ha proposto. E poi la voglia di liberazione da certi pesi antichi che ha rappresentato l’affermazione de Lo Stato Sociale».
Sono diventato amatissimo sui social che neanche frequento In un periodo in cui sembra che il presenzialismo sia tutto io dimostro il contrario senza nemmeno averlo fatto apposta