Il no a Papini, il diktat a Saragat E le orecchie d’asino di Bazzani
C’ERA UNA VOLTA LA BIBLIOTECA
Quando non c’era internet, e si credeva che la sete di sapere potesse venire saziata solo con i libri, essere ammessi in Nazionale significava per uno studente fiorentino lasciare la toga pretesta. Finita l’epoca delle bibliotechine scolastiche, poter accedere a tutto quello che era stato pubblicato in Italia costituiva una conquista tale da far passare in secondo piano l’imbarazzo di entrare nel grande vestibolo dopo aver sfidato lo sguardo indagatore del personale di portineria. In base al regolamento, per accedere ai servizi sarebbero necessari diciott’anni, ma uscieri e bibliotecari chiudevano un occhio. Chiusero un occhio, almeno con chi scrive, entrato per ottenere in lettura un libro sull’esoterismo di Dante alla vigilia della maturità. Non lo avevano chiuso invece i loro predecessori con un adolescente dalla chioma ribelle e dallo sguardo bulimico di sapere, che avrebbe ricordato quella delusione in una pagina memorabile dell’«Uomo finito».
L’edificio precluso al giovane Giovanni Papini non era in realtà quello attuale. Ai primi del Novecento il patrimonio librario della biblioteca, nata nel 1861 per volontà di Francesco de Sanctis dall’accorpamento della Magliabechiana e della Palatina, era disperso fra il complesso degli Uffizi, il padiglione della Caserma dei Veliti in via de’ Castellani e Palazzo dei Giudici. Ma l’esigenza di una sede adeguata si faceva sempre maggiore, da quando, ottenuto nel 1870 il diritto di esigere una copia di tutte le pubblicazioni edite nel Regno, la mole cartacea si faceva più ingente. Il dibattito era stato lungo, ma fu soprattutto per l’impegno del deputato socialista Giuseppe Pescetti che venne individuata per la collocazione della biblioteca l’area compresa fra Santa Croce, corso Tintori e l’Arno, dove un tempo sorgeva una caserma.
I lavori cominciarono nel 1912, su progetto dell’architetto Bazzani, ma fra guerra e dopoguerra il nuovo edificio fu inaugurato solo nel 1935. Le polemiche non mancarono: l’edificio, col suo stile aulico con qualche concessione allo stile Liberty, nasceva vecchio, proprio mentre Firenze era abbellita da alcuni capolavori del razionalismo architettonico. Prese di mira furono particolarmente le due torrette sovrastanti l’edificio, presto bollate come «le orecchie d’asino dell’architetto Bazzani»: un giovane docente universitario di storia dell’arte, Ranuccio Bianchi Bandinelli, riluttante chaperon di Hitler durante la sua visita a Firenze nel 1938, fu tanto colpito dalla loro bruttezza che ne propose al ministro Bottai la demolizione. Raro esempio di edilizia bibliotecaria in Italia, la Nazionale assolse comunque onestamente le sue funzioni, sino al trauma dell’alluvione. Un trauma che pure contribuì a rinsaldare il suo legame col mondo, dando vita a un’aneddotica in cui l’impegno generoso degli angeli del fango si mescola con la brusca risposta del direttore Casamassima al presidente Saragat in visita: «Per favore, ci lasci lavorare». Ma le ferite rimasero, proprio mentre, con il boom della scolarizzazione di massa, le sue sale cominciarono a essere sempre più frequentate. Si andava in Nazionale con diversi intendimenti.
C’era il fuori sede alla ricerca di un posto ben riscaldato in cui studiare, lo studioso convinto di trovarvi il libro che cercava (ma dopo l’Alluvione non era più così), lo studente che ambiva a ottenere un libro in prestito esibendo la «malleveria» del professore, il laureando orgoglioso di accedere al sancta sanctorum dell’edificio, la sala di consultazione, previa lettera di presentazione del docente che gli aveva concesso la tesi. Le attese erano lunghe, il personale della carriera esecutiva sindacalizzato e a volte burbero, talora assenteista. C’era un addetto alla distribuzione di pel fulvo uso annunciare con un sorriso sardonico che un libro non era disponibile (e a chi scrive venne gabellato per alluvionato un libro edito nel 1969…), una responsabile del prestito che sembrava sottrarre alla libreria di casa sua i volumi che dispensava, un impiegato con la vocazione del menestrello che prendeva lunghi periodi di malattia per andare in tournée e fu costretto a dimettersi, tradito da una locandina. Ma a volte anche dai disagi poteva uscire qualcosa di buono. Le lunghe attese erano occasione d’incontri, pronube a volte di corrispondenze di amorosi sensi che si prolungavano anche dopo la consegna dei libri. Forse per questo, a un certo punto, fu deciso di chiudere al pubblico i piani alti, meno controllabili, della sala di lettura.
Con gli anni Ottanta cominciava il processo di informatizzazione, che se da un lato semplificava, con l’introduzione del codice Isbn, il lavoro di schedatura agli impiegati «di gruppo B», dall’altro creava beffardi paradossi. Libri presenti nel catalogo elettronico e regolarmente richiesti non si trovavano: il tipografo non aveva consegnato le copie d’ufficio, che risultavano esistenti solo sulla carta, anzi nel computer. Nel frattempo, la biblioteca si arroccava in se stessa, sempre più biblioteca di conservazione e sempre meno di consultazione. L’accesso fu reso più difficile, quasi scoraggiato, da un esame preventivo in cui veniva fatto capire al potenziale frequentatore che avrebbe potuto trovare anche altrove i libri cercati.
Oggi, però, si pone il problema opposto. La delocalizzazione di molte facoltà universitarie, la presenza di moltissimi volumi digitalizzati su internet, la possibilità di verificare direttamente sullo Sdiaf (il sistema documentario integrato dell’area fiorentina) la reperibilità di un’opera in altre biblioteche, hanno ridotto il numero dei frequentatori, creando l’alibi per discutibili tagli. È un segno dei tempi, tempi in cui la galassia Gutenberg sembra aver ceduto il passo alla galassia Zuckerberg. Oggi forse il sedicenne Papini non piangerebbe se gli fosse precluso l’ingresso alla Nazionale: quello che desidera lo troverebbe sul web. Ma difficilmente troverebbe su internet l’ispirazione per un altro «Uomo finito».
Ieri e oggi La galassia Gutenberg sembra aver ceduto il passo a quella Zuckerberg: tutto è online e questo crea l’alibi per discutibili tagli