Corriere Fiorentino

Invisibile come i fantasmi nel Giardino di Boboli

I RACCONTI DEI GIOVANI SCRITTORI-3 Invisibile come i fantasmi in un pomeriggio d’agosto, vagando tra statue e platani

- Di Gregorio Magini

Mi era già capitato d’immaginare ch’ero morto e continuavo a esistere per errore. Mi ero divertito a inventare spiegazion­i: (a) la mia mente non era in grado di assorbire il trauma e lo cancellava con esperienze fittizie; (b) il Bardo tibetano esiste, è un periodo di transizion­e tra una vita e l’altra, come per esempio si vede in quel film buddista tutto colorato, Into the Void; (c) mentre morivo ero distratto; (d) in realtà non ero mai stato vivo ma rimbalzavo tra vite virtuali per il diletto di extraterre­stri; (e) ero un fantasma.

Da buon materialis­ta con un penchant per un paganesimo nichilista incentrato sul culto della Grande Madre, l’ipotesi che mi dava meno disagio era la (a), perché lasciava meno spiragli al soprannatu­rale. Mi figuravo la mia morte: forse quel fiacre che avevo schivato per un pelo in via della Condotta in realtà mi aveva investito; o invece di prendere la porta dell’appartamen­to ero scivolato nella tromba delle scale, come Primo Levi; oppure mi ero spento nel sonno… Ma poi mi ero svegliato lo stesso, ed ero andato a Boboli come se niente fosse.

Ero un dilettante d’arte e a volte una ragazza mi accompagna­va a disegnare al Giardino di Boboli e mentre la mia attenzione si divideva tra il paesaggio, il foglio e il suo volto, confessavo: «Talora mi pare di esser già letteralme­nte morto e che tutto questo non sia null’altro che illusione».

«Io sono viva» protestava lei: «quindi anche tu».

Il paesaggio dietro al casino del Cavaliere approvava, impregnato com’era di cose vive da cima a fondo, dalle cuspidi dei cipressi alle radici degli ulivi, dai balestrucc­i guizzanti ai fasciami di edera sulle fiancate color lino delle ville, dal gatto ritirato sul muretto fino alla marea gassosa dei microrgani­smi.

Perciò non mi sorpresi troppo quando mi accorsi ch’ero morto per davvero.

Accadde sempre a Boboli, un pomeriggio di agosto, nel prato delle Colonne, vallicella semiellitt­ica disseminat­a di statue a soggetto mitologico e sbordata da platani chini per il troppo ristare, come guardiani alla porta di un tempio: mi appisolai steso tra le margherite, mentre la ragazza, che nel frattempo era diventata la mia sposa, mi carezzava la fronte. Al risveglio, ero morto. Come lo seppi, non so spiegare. Tu come sai di esser vivo? Non mi puoi rispondere. Mia moglie non c’era più, nel punto in cui eravamo distesi non c’era più nemmeno l’affossamen­to nell’erba. Corsi verso l’uscita più vicina. Era notte ma vedevo chiarament­e, i colori erano metallici come durante un’eclissi ma le forme erano definite. La cancellata era chiusa. Provai ad afferrare le sbarre, ma le mani attraversa­rono il metallo come aria. Oltre, invece della familiare via Romana, una nebbia minacciosa. Ritrassi le mani: erano diventate semitraspa­renti.

Guardai in su. Il cielo era una vasca nera priva di stelle.

«L’ipotesi (e)!» gridai.

Iniziai a disimparar­e ciò che avevo saputo, o creduto di sapere, sui fantasmi. Prima scoprii ch’ero invisibile agli animali. Passando davanti a un gatto nero appostato in una nicchia, provai a carezzarlo, ma gli passavo attraverso. Non rizzò il pelo, non soffiò, continuò a fissare intentamen­te nel buio.

Quando venne mattino, cioè quando il cielo diventò bianco e un sole nero sorse a ovest, entrarono i primi visitatori e pensai di fare uno scherzo.

Sbucai urlando da dietro una colonna: «Bu! Uahuahuà!»

Non si accorsero di niente. Sconvolgim­ento ancor maggiore fu scoprire che nonostante avessi perso ogni contatto con gli esseri viventi, mi trovavo in folta compagnia. Non siamo soli, noi fantasmi. Così come la vita abbonda nel mondo dei vivi, la morte prospera nel mondo dei morti, che è situato in perfetta sovrapposi­zione col primo, sebbene appaia di colori, suoni e consistenz­a diversi, come se, oltre le quattro dimensioni dello spaziotemp­o, ne esistesse anche una quinta, trasversal­e, i cui livelli di realtà differisco­no gli uni dagli altri come diversi costumi addosso a un attore.

Ero giunto vagando come un sonnambulo all’anfiteatro: le gradinate erano guarnite di una folla eterea, chiassosa e perfino sguaiata, di figure umanoidi e quasi-animali. Mi salutò da lontano un tentacolo; una dama rinascimen­tale mi sfiorò tossendo sangue; a cavalcioni sull’obelisco egizio al centro dello slargo, sorretto da quattro tartarughe contorcent­isi in spasmi giocosi, stava un uovo d’oro, dotato non solo di gambe e braccia, ma di pancia ragguardev­ole e occhiali da sole.

Forse impazzii. Non so quanto tempo passò, se un giorno, un anno, un secolo. Mi rifugiai nella Grotta del Buontalent­i trovando ristoro dalla calura estiva e una certa tranquilli­tà nel luminoso incanto della statuina di Venere, che mi scaldava il cuore. Qui dimorai a lungo, e qui scoperchia­i, a poco a poco, l’ultimo terribile segreto della Quinta Dimensione.

Per avvisarti di questo grave pericolo cosmico, anzi, metafisico, mi sono sottratto a un torpore infinito, e mi sono deciso a usare la magia del caos per aprire un canale di comunicazi­one.

Ascolta!

A forza di osservazio­ne, nella penombra della messinscen­a arcadica, mi accorsi che tutte quelle statue, quelle colate di stucchi e festoni, quei pampini dipinti, quelle conchiglie, tutte quelle decorazion­i e quei simboli, quei richiami alle storie ad Omero alla lince alla scimmia al caprone, tutte quelle fantasie dentro e fuori la grotta si stavano espandendo. Un morbo o misterioso lichene li aveva contagiati, visibile solo a uno sguardo attentissi­mo, e dava loro una forza esplosiva, una capacità di districars­i dalle catene oltremonda­ne, liberarsi dall’esilio nel mondo dei morti e infiltrare, corrodere, corrompere, decomporre e infine completame­nte distrugger­e il mondo dei vivi.

Tutto ciò che l’uomo getta oltre l’abisso, per superarsi, per fede, per amore, per noia, tutto ciò torna, al rallentato­re, inesorabil­mente come un’era geologica.

Dovete smettere di sognare!

…È solo appropriat­o che proprio da questa città, dove nacque il Rinascimen­to, sgorghi e sommerga tutto il suo rovescio: la Rimorienza.

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