La nostalgia di Andrej (una Val d’Orcia da film)
A Bagno Vignoni il sopralluogo di Tarkovskij e Tonino Guerra tra acqua e cielo
Andrej va nella camera 38 a riposare un’ora. La stanza è buia perché così l’ha espressamente richiesta all’arrivo. Una matrimoniale la cui finestra non fosse dal lato del caseggiato su cui batte il sole. Nei primi anni ‘80, a Bagno Vignoni, richieste del genere erano strane: siamo lontani dal turismo di massa, dalle SPA e dai criteri di eco-sostenibilità, da TripAdvisor e dalla retorica del turista internazionale che ha sempre ragione.
Andrej entra nella stanza: ha passato la giornata a camminare, scrivere appunti sul taccuino, sudare e acquisire immagini. Quando ha detto «Sono stanco, non mi sento bene, vado a riposare» ha interrotto Tonino che gli stava raccontando di come i romani costruivano le terme. È normale per un russo interrompere di punto in bianco una conversazione: è come un’ancestrale disposizione a distogliere lo sguardo, una cura per la rinuncia quasi mistica. Nell’ora più luminosa del giorno, la luce rimbalzava su tre pareti di mura, prima di mescolarsi ai metri quadri della camera 38, rovesciandosi sul pulviscolo atmosferico del meriggio. Fino al primo quarto d’ora di riposo, altro non aveva sentito che il passaggio di Tonino fuori dalla porta. Lo aveva riconosciuto dal passo. Lo aveva sentito sostare fuori, come a cercare di intuire la sua veglia.
Velocemente s’interna un frastuono: rimbomba sulla via un bailamme di ottoni e legni. È la banda di San Quirico d’Orcia che azzarda una marcia, in visione del concerto del prossimo autunno. Andrej attraversa il corridoio furiosamente e si lancia sull’ingresso dell’hotel. Trova Tonino sotto il pergolato, con gli occhiali a mezzo naso, che batte sulla Olivetti verde acqua, poggiata sul vimini di una seggiola, e lui piegato sopra un inginocchiatoio da confessionale. Andrej grida contro i suonatori. «Ma che ha?» si chiedono i trombonisti, mentre quello vomita maledizioni in russo, col crocifisso ciondolante sulla t-shirt. «Scusate eh» interviene Tonino «ma non è che potreste provare da un’altra parte?». Li si potevano vedere, i suonatori, ritirarsi alle macchine e il più vecchio, in fondo, dondolando tra il peso del busto e il sax soprano a tracolla, che dice: «Mah…» dice «Sarà anche un regista famoso, ma a me sembra scemo».
C’è anche Giuseppe Lanci a fare il sopralluogo, con Tonino Guerra e Andrej Tarkovskij. Adesso non lo vedi perché è estate, ma con il freddo qui, già in autunno, c’è un sacco di fumo... Questo posto è utile per rappresentare l’evanescenza della memoria. Il dato creativo della nostalgia, no? È bello perché ci permette di portare avanti un discorso cinematico descrittivo, costruendoci contestualmente un’azione. La nostalgia è questo desiderio doloroso del ritorno a casa, secondo l’etimo. «Una casa la cui immagine in realtà proiettiamo e che puntualmente ci delude, no? Che siamo sempre una cosa diversa, non è possibile tornare nello stesso punto in cui siamo stati». Qui potremmo fare un carrello? Almeno fin là, alla base di quella piccola rampa di scale, tutto lungo il muro ad est del vascone centrale. Lui lo facciamo camminare avanti e indietro su questo spazio, con le figure borghesi che commentano il suo passaggio, immerse nella vasca… Tonino Guerra faceva rumore di proposito con le suole delle scarpe, tenendo i pugni in tasca. Gli altri due lo guardano e lui risponde con una faccetta buffa. Andrej contrae le sopracciglia. C’era un ineffabile tratto di lucentezza, tra le pozzanghere e il cielo, che sembrava riflettere non solo lo spazio fisico contenuto nella forma dell’acqua, ma tutto il creato, tutti i dati fisici e tutto ciò che questi contenevano. Andrej continua a camminare rasentan- do il muro oltre al quale la vasca termale si riempie di monetine.
«In questo punto qui, dici?» chiede Tonino. Andrej annuisce. «Quindi utilizzeremo La Madonna del Parto, anche se l’ha già usata Zurlini, in quella scena con Alain Delon e quell’attrice russa?». Andrej fa sì con la testa. «Guarda che però è a più di un’ora di viaggio, sei sicuro?». È sicuro.
Poche ore dopo, un nuvolo di valdorciani lo aveva circondato. «Sì, lui parla solo russo ma ti capisce, eh».
«Guardate che i vasconi per fare il bagno ‘un so’ mica qui eh, andate giù, di sotto…», dice un passante.
«Si prende la salmonella a fa’ il bagno in Piazza delle Sorgenti» urla un altro, mentre druscia faggina sul basolato. «I ragazzetti ci vengono la notte a fa’ l’amore e poi prendono le infezioni».
«Servirà un effetto speciale», dice il primo. «Guardi che lui vuole fare un film estremamente realistico», dice Tonino.
«La poesia non si può tradurre» — dice in russo Andrej — «io non so come fate voi a leggere Puskin…»
«E allora voi con Petrarca, Dante, Machiavelli?» dice Tonino.
«Ma infatti non ci capiamo niente» tuona Andrej,
«E come facciamo noi a capirci? Eh?» Andrej si liscia il ciuffo e pensa, guardando la Val d’Orcia. Già aveva tutto il film in mente: c’era Rocca d’Orcia che gli sembrava un’altra Russia, già vedeva Jankosvoskij che chiede un cerino ad un passante, con gli occhi che hanno dentro il colore della taiga, il muso duro delle conifere d’inverno anche sotto il sole della Toscana. Erland Josephson che vuole parlare con la gente del posto, riuscire a essere tutti loro, con il suo metodo, con la sua immersione totale. Già ha in mente quel giovane inglese, Peter Greenaway, a cui avrebbe insegnato come si utilizza l’acqua in una pellicola, sia negli impianti simbolici, sia nell’effetto luce. Già ci sono gli occhi di Domiziana Giordano, perfetti per incarnare la Russia italiana, che si dipana e affastella i paesaggi dell’Amiata. Piancastagnaio come una Stalingrado, solida, armata e resistente, Firenze come una Mosca solenne, Radicofani come uno Zavraž’e abbarbicato sull’altura.
«Eh, allora?» rimbalza Tonino, «Come facciamo a capirci?», e mentre capisce ancora una volta che il suo mestiere è quello dei poeti, dare parole alle cose degli uomini, Andrej guarda i passanti negli occhi e sorride:
«Dovremmo tornarci d’autunno», dice.