Materassi in fila e lavoro nero I migranti di Vicofaro
Cento ospiti per 12 posti: dormono su materassi in fila, lavorano in nero per i cinesi
«Vengono tutti qui, con il passaparola». Viaggio tra gli ospiti di don Biancalani, che non manda via mai nessuno: sono i profughi di Vicofaro, stretti in spazi che non permettono più nulla di privato, divisi tra le faccende domestiche e il lavoro dai cinesi.
Nella cucina dove si prepara da mangiare ad ogni ora, nel salotto con i vecchi divani in pelle al primo piano, nei bagni, che cercano di essere sempre puliti, lungo i corridoi dove sono state sistemate le brande di fortuna: dove finisce il materasso dell’uno comincia quello dell’altro. Tutti gli spazi, nella parrocchia di Vicofaro, sono comuni. Non c’è più superficie per dividere le attività private da quelle pubbliche e i gruppi dalle persone.
Cercando di dribblare la retorica del «sì o no» all’accoglienza dei migranti, abbiamo cercato di capire come vivono i profughi qui. Che sono tanti a Vicofaro, dieci volte in più rispetto ai 12 posti assegnati alla chiesa, attraverso il progetto canonico dei centri Cas. I ragazzi e le ragazze sono circa cento: quasi tutti africani, reduci dal viaggio nel deserto attraverso la Libia.
Molti, quando parlano dei loro ultimi mesi, raccontano esperienze di violenza e morte raccapriccianti: «Belive, no more trust», dice Emanuel, un ventenne nigeriano che spiega come abbia sviluppato, negli ultimi tempi, l’attitudine a credere per sperare, ma nonostante ciò a non fidarsi di nessuno. «Nemmeno di mio padre, di mia madre e di mia sorella», dice convinto. Emanuel ha sentito lo sparo al centro dell’indagine sull’episodio di violenza di cui a Vicofaro nessuno vuol parlare. «Siamo tranquilli, ma è assurdo che nemmeno nel mio Paese, da cui sono scappato, si verificano episodi simili di intolleranza». Oltre ai profughi c’è anche qualche indigente italiano. Qualcuno si asciuga dopo la doccia, altri ascoltano la musica con le cuffie camminando fra i cento cartelli «laici» appiccicati alle pareti, che inneggiano tutti alla giustizia sociale, all’accoglienza, alla lotta al razzismo.
Vicofaro è un fortino, che ha un’aura di resistenza. Un mondo a parte che non somiglia al resto della città, sembra isolato dal contesto, periferico nonostante la vicinanza stretta della chiesa di Santa Maria Maggiore al centro storico di Pistoia.
Gli stessi migranti, quando li si interroga, hanno difficoltà a dare numeri precisi sulle presenze nella struttura, perché «ogni giorno qui arriva qualcuno». La maggior parte sono profughi. Ibrahim, il giovane africano che da anni è a fianco di Don Massimo Biancalani, spiega che «vengono indirizzati in parrocchia sin dal loro arrivo in Italia, con dei biglietti, e con il passaparola, perché si sa che qui a Vicofaro accolgono tutti».Una sorta di luogo a sè, accanto al «parroco buono», che non manda via nessuno. Una pratica nota in città, come nel circuito mediatico, che delle polemiche sulla gestione di Don Biancalani ha imparato a conoscere ogni aspetto, sui social, come in televisione. Una «crociata» combattuta dal parroco con il favore dei suoi parrocchiani, che lo sostengono, nonostante qualche malcelata perplessità.
«Non è la situazione ideale, ma è sempre meglio accogliere che lasciare queste persone da sole, senza assistenza», dice Marco, uno dei volontari.
Ieri pomeriggio, al riparo (vano) dell’arsura d’agosto, nel salotto c’era anche un ragazzo bianco: Nicola, 18 anni, venuto qui a parlare con alcuni suoi coetanei profughi, dopo averli conosciuti in centro storico nei giorni scorsi. Una storia normale, in mezzo a tutta questa eccezionalità.
E poi c’è un certo silenzio, frutto del fatto che la maggior parte degli «ospiti» sono a Prato: «almeno fino all’una di notte», spiega Ibrahim. Ma a fare cosa? «A lavorare dai cinesi, poi prendono l’ultimo treno della sera e tornano qui a dormire».
Una prassi su cui si immagina che nemmeno lo stesso Don Biancalani possa far molto: queste persone sono fuori da ogni controllo, dunque libere di essere ospitate e di fare ciò che desiderano nell’arco della giornata. Tra i fedeli c’è anche chi critica come avviene questa accoglienza, senza strumenti e chiedendosi con quali risorse, con che modalità e mezzi. Antonietta Planta spiega che «l’eccessiva sovraesposizione del prete crea delle difficoltà ulteriori, per chi è oggetto dell’accoglienza e per chi la osserva da fuori: tutto andrebbe meglio — dice — se questa accoglienza fosse fatta con la propensione a porgere l’altra guancia, a non ingigantire le polemiche che fanno male a noi, al clima in città e ai profughi».