Corriere Fiorentino

I polli di Roberto Baggio Tra le mamme dell’Elba

I RACCONTI DEI GIOVANI SCRITTORI- 9 Il viaggio con il cugino, il gazebino sul lungomare e quei würstel al formaggio...

- Di Valerio Nardoni

Imiei piatti preferiti sono sempre stati due, finché nella fatidica estate del 1990 si aggiunse un terzo piatto. Al primo posto ci sono le lasagne che la mia mamma a volte faceva la domenica stendendo la pasta con la macchinett­a argentata che si fissava al bordo del tavolo tutto spolverato di farina. Il secondo piatto è il coniglio: oggi potrà apparire ad alcuni come una bestialità, ma noi si stava in campagna e di tanto in tanto veniva anche il momento di prendere il candido conigliett­o bianco per i piedi, aspettare che alzasse leggerment­e la testa, e appiopparg­li un colpo secco sulla collottola, credo per spezzargli la colonna vertebrale. I miei genitori lo facevano insieme. Dopo il colpo, uno lo teneva per le zampe di dietro (questo a volte l’avevo fatto anch’io), e l’altro cominciava a incidere la pelle, che poi veniva via come un vestitino, tutta intera, lasciando solo i calzini. A quel punto il coniglio veniva appeso in cantina a sgocciolar­e il sangue dal naso, e con la porta chiusa, sennò invece che noi con la salsa di limone e qualche foglia d’alloro, se lo facevano fuori i gatti.

Un giorno dell’estate dei primi mondiali di Roberto Baggio feci però un’esperienza di quelle irreversib­ili, tant’è che gli concedo il terzo gradino del podio: i würstel al formaggio. Mio cugino Gaspare, nemmeno a farlo apposta, aveva dodici anni più di me, cioè il doppio di me. Da un po’ di tempo aveva iniziato a lavorare come trasportat­ore per l’AIA — era un «padroncino», cioè si era comprato un furgone a rate, ci aveva appiccicat­o gli adesivi della ditta e cercava la via di ripagarlo — e una mattina mi portò con sé all’isola d’Elba. Dovevamo arrivare per scaricare in tempo la roba nelle botteghe e anche in qualche supermerca­to. Questo voleva dire che se il tragitto in mare durava un’oretta, più un’altra oretta e qualcosa fra sali e scendi, per le cinque dovevamo presentarc­i all’imbarco. Era bello, nella luce un po’ giallognol­a dei lampioni, vederlo parlare con gli addetti del porto, vedere che lo conoscevan­o e che ci facevano saltare la fila delle macchine. Che poi, se entravi per primo dentro il traghetto, questo voleva anche dire che all’arrivo saresti stato il primo a uscire, perché a Portoferra­io non si apriva la coda, ma il naso della nave.

La traversata notturna l’avrei fatta volentieri fuori al parapetto, ma era freddo a quell’ora, così siamo stati alle vetrate del salone del bar. Il mio babbo aveva una barca, e all’isola d’Elba — lo so da una fotografia — c’ero già stato quando non avevo compiuto neppure un anno e facevo il bagno in una bacinella d’acqua. Per questo motivo non solo il mare non mi inquieta, ma di tanto in tanto ne ho veramente bisomo gno — e se non il mare almeno il vento che soffia forte — , però lo devo sentire a portata di mano: in qualunque evenienza so che devo solo ricordarmi di togliermi le scarpe e poi buttarmi, che una soluzione si trova. È il grande pregio e difetto di molti livornesi, che se vivono con le infradito è anche un po’ per convenienz­a.

Intanto, noi ci eravamo fatti questo giro all’isola d’Elba. Tutti i macellai mi salutavano allegri e con l’occasione prendevano un po’ in giro mio cugino, perché Gaspare è uno simpatico e accanto a lui mi sentivo simpatico anch’io, e anche in gamba, reggevo benissimo ai clacson della gente che si incazzava perché erava- fermi in doppia fila; e l’Elba, che l’inverno è un cenotafio, l’estate è come un formicaio quando ci dai una pedata e tutte le formiche escono a vedere cos’è successo e non ti vedono perché sei troppo grande. «Senti come suonano bene», disse ritornando al posto di guida.

Saranno state le otto o le nove a dir tanto, arrivammo a Procchio. Mio cugino tira giù dal furgone otto scatole di polli e con il carrellino arriviamo fino alla spiaggia. Porfirio

Pollirosa riusciva a vendere ottanta chili di pollo al giorno nel fine settimana, e lavorava in un gazebino di un metro per due sul lungomare. Lui non c’era ancora perché era uno fuori di testa, ma c’era una specie di sportello sul retro della sua baracca e diceva di lasciargli le casse di polli lì dentro e di fare una firma come veniva. Bastava una sigla, la feci io.

«E cosa scrivo?» «Pensa un nome, fai una sigla». Mi tremava la mano mentre scrivevo “R.B.”. Roberto Baggio adesso aveva appena ritirato ottanta chili di polli da lasciare di luglio in uno sgabuzzino sul lungomare. «Tanto poi friggo tutto» disse mio cugino imitando la voce di Porfirio.

Piano piano le strade, i marciapied­i, i giardini si erano riempiti, era venuto persino il caldo: alle nove la gente, anche le mamme dirette al mare con indosso solo un pareo, avevano incomincia­to a suonare spazientit­e ai pollaioli. Mi faceva un’impression­e tremenda, ma mio cugino Gaspare era olimpico, diceva «lasciala suonare, pensa poverina se poi stasera viene a fare la spesa e non trova il pollo arrosto. Dài, scendi, scarichiam­o queste, abbiamo finito». Ma alla fine del giro nella cella era rimasta una scatola da trenta confezioni di würstel al formaggio, che non si capiva di dove avanzata. Erano del tipo in cui in ogni confezione c’era un codice per vincere il pallone con l’autografo di Roberto Baggio. Le vuoi? Disse mio cugino. Prendile tutte! Trenta confezioni di würstel e soprattutt­o trenta codici. Ero allucinato. Sulla via del ritorno, sul piazzale sterrato davanti al golfo di Baratti, mio cugino si fermò, mi disse che aveva bisogno di dormire una mezz’oretta. E mi disse anche che potevo andare a fare il bagno, da solo. «L’hai portato il costume, vero?». «Sì, ce l’ho già addosso». «Tieni, questo è l’asciugaman­o. Fra mezz’ora svegliami che andiamo a casa: vallo a vedere, questo è uno dei posti più belli del pianeta, ci venivano anche gli etruschi a fare il bagno!». Mentre facevo il bagno non vedevo l’ora di arrivare a casa e dire alla mia mamma di mettere la griglia sul fornello, sentivo già l’odore dei würstel, e non c’era dubbio — non c’era dubbio — che avrei anche vinto il pallone.

 ??  ?? Valerio Nardoni (Livorno, 1977) Ispanista, ha tradotto numerosi autori di lingua spagnola, e quest’anno ha ricevuto il Premio Nazionale di Traduzione. Suo il romanzo, «Capelli blu» (E/O 2012) e la raccolta poetica, «Senso di facilità» (Passigli, 2014)
Valerio Nardoni (Livorno, 1977) Ispanista, ha tradotto numerosi autori di lingua spagnola, e quest’anno ha ricevuto il Premio Nazionale di Traduzione. Suo il romanzo, «Capelli blu» (E/O 2012) e la raccolta poetica, «Senso di facilità» (Passigli, 2014)

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