A Trassilico c’era un asino che spaventava i bambini
I pomeriggi nei vicoli del paese, il pallone che finiva nella buca più temuta. Per i morsi...
Mi raccomando parla ammodo, pare che tu li prenda in giro! Ogni anno sulla strada per Trassilico mia nonna mi dava sempre la stessa lavata di capo preventiva, ma non serviva a nulla: superate le ultime curve e il massiccio lavatoio, ai primi tetti delle case io attaccavo col garfagnino. Le g si ispessivano, le t si trasformavano in d e io ero pronta per un altro luglio da villeggiante di montagna che cercava di confondersi il più possibile con gli abitanti autentici.
Compivo tredici anni quell’estate e non sapevo che sarebbe stata l’ultima trascorsa a razzolare libera tra le viuzze di pietra, dove le auto non potevano entrare, e a tirare gavettoni nella piazzetta da cui si ammirava la Pania. I boschi potevo scordarmeli: in primavera era scomparso un vecchio andato a funghi e mai più ritrovato, così nonna mi aveva vietato qualsiasi esplorazione solitaria ma non m’importava, avevo tutto il paese per me.
La nostra banda di ragazzini, locali e importati, era padrona dei vicoli che si attorcigliavano intorno ai resti della fortezza; il borgo si stendeva tutto in pendenza sulla punta della montagna e giocare a palla era un esercizio per virtuosi e scattanti raccoglitori, pronti a inseguire il Super Tele prima che finisse inghiottito dai canaloni che sbucavano nelle selve, dove sarebbe stato smarrito per sempre. Io ero tra quelli che correvano, schivando buche, gradoni e passanti, rimettendoci porzioni di pelle su ginocchia e gomiti. Nei giorni in cui il vento soffiava dal lato sbagliato i palloni cambiavano direzione e la tragedia si compiva: avevamo pochissimo margine di manovra per recuperarli, prima che precipitassero nella buca più temuta, il cortile dell’asino dell’Orsi. Era questa una bestia d’ascendenza mitologica: nessuno di noi l’aveva mai vista con i suoi occhi ma nelle ore più infuocate del pomeriggio e a notte fonda alzava fiera al cielo un raglio di potenza rara. Quel boato informe – antenato ancestrale dell’educato ih oh imparato nel sussidiario delle elementari – era l’unico segno d’esistenza dell’animale che viveva confinato nel cortile circondato da un alto muro di pietra, impenetrabile e impossibile da scavalcare.
Non t’azzardare Lucia, quell’asino l’hanno rinchiuso perché è cattivo e ai bimbi gli mangia le mani. Il monito della nonna, dispensatrice di perle di saggezza al pari di importanti manrovesci, mi teneva fisicamente alla larga dal mistero che io e Andrea, mio compare di malefatte, avremmo pagato per svelare.
Chissà che ci tengono laggiù! A ogni palla perduta saliva il livello di stramberia delle nostre speculazioni: l’essere in grado di produrre quel suono calamitava la nostra fantasia, arrivammo a immaginare che l’Orsi, mite e schivo contadino da cui compravamo il latte appena munto, facesse la guardia a un vero e proprio mostro, con la testa da scimmia urlatrice e la coda da biscia.
Escogitammo una sortita: avremmo assaltato il fortino dall’alto, passando dalla casa a fianco che era rimasta sfitta. Andrea aveva sottratto la chiave a sua madre, che badava diverse abitazioni per conto dei proprietari che non stavano più in paese. Aspettammo le due del pomeriggio per intrufolarci, quando il sole batteva più forte e tutti erano impegnati a di- gerire il pranzo. E se poi ci scopre qualcuno? Ero fredda e sudavo come quando mi si abbassava la pressione: Andrea mi prese per mano e fece cenno di non fiatare, io mi morsicai forte l’incavo della guancia perché avevo paura di svenire. Scivolammo dal portone nell’androne scuro, odoroso di polvere e camino, e poi su per le scale fino alla camera d’angolo che secondo i nostri calcoli si affacciava sul cortile segreto. La mano di Andrea tremava avvicinandosi alla maniglia della finestra, ma poi la presa si fece decisa e io mi dovetti unire: ci vollero gli sforzi di entrambi per far scattare la serratura e allora – meraviglia! – ci ritrovammo davanti a un muro di mattoni. Un’idra a tre teste ci avrebbe spaventato meno, fuggimmo come se quel sigillo di cemento fosse sul punto di spezzarsi e liberare chissà quali orrori, pronti a punirci per l’oltraggio subito.
Poi ce ne dimenticammo ma senza intenzione, come succede ai bambini che di fronte a una via chiusa imboccano al volo la successiva. Furono altri misteri a tenerci occupati e mentre luglio scivolava dentro agosto, poco prima che i nonni mi riconsegnassero ai miei genitori, io mi ero quasi dimenticata dell’asino dell’Orsi. C’era la sagra in piazza, con la musica, la tombolata e un piatto di quarti fritti, biroldo e frittelle di neccio per tutti; nonna era seduta a frescheggiare davanti alla chiesa con le sue amiche della canasta e mi chiese di andare a prenderle lo scialle a casa. Il paese era illuminato a festa ma deserto, le file di luci tese tra i muri delle case ammantavano le strade che conoscevo a memoria di riflessi nuovi, svelavano anditi sempre rimasti in ombra e celavano gli scalini su cui ero solita appoggiare i piedi: per un attimo, attraversando il cono luminoso della luna piena, mi parve di camminare dentro un sogno e in seguito avrei ricordato più quella passeggiata spettrale di quello che vidi alla fine.
Avevo affilato i riflessi per registrare tutti i dettagli che sembravano aver cambiato posto per farmi un dispetto e così notai subito che il portone di legno dell’Orsi era socchiuso, giusto un filo fuori asse rispetto al solito. Bussai senza riflettere e poi spinsi con delicatezza l’anta, che scivolò fischiando sul suo cardine. Mi feci avanti e nel chiarore lunare intravidi nell’angolo opposto del cortile un asinello grigio che dormiva, legato a un paletto e circondato da un cimitero di palloni, mentre davanti a me, superati i coppi dell’olio e una fila di salami fatti in casa, si apriva un quadrato di terra smossa di recente da cui fuoriusciva un dito bianchissimo, come un fiore di marmo, su cui brillava un’unica goccia di sangue rappreso.