Puccini e i suoi pittori alla fondazione Ragghianti
Fu lui a volere le scene di Galileo Chini per la prima alla Scala della «Turandot» Amava Previati e Balestrieri: scenografi e pittori cari al maestro, alla fondazione Ragghianti
Un anno e mezzo di ricerche da parte di una dozzina di studiosi, il coinvolgimento di tutte le istituzioni pucciniane per indagare sistematicamente, per la prima volta, il rapporto fra Puccini e le arti visive. Per sogni e per chimere. Giacomo Puccini e le arti visive espone alla Fondazione Ragghianti di Lucca fino al 23 settembre oltre 120 opere, più oggetti, reperti, testimonianze a ricostruire una rete complessa di relazioni e reciproci debiti fra Puccini e gli artisti con cui strinse rapporti.
Paolo Bolpagni, direttore della Fondazione Ragghianti nonché co-curatore dell’esposizione, non è nuovo ad avventure del genere. È di pochi anni fa la sua indagine sul rapporto fra Wagner e le arti visive, che si rivela essere davvero un caso unico. «Il wagnerismo è un fenomeno nato in Francia due anni dopo la morte del compositore. Sono i simbolisti che lo adottano perché vedono in lui un anticipatore. D’altronde Wagner ha costruito un mondo, era un teorico dell’opera d’arte totale, anche se non amava molto gli artisti visivi. Puccini è un autore diversissimo. Non ha mai avuto la pretesa di sconfinare in altri campi. Però abbiamo riflettuto con gli altri curatori che fosse doverosa un’indagine sistematica sui rapporti con gli artisti della sua vita».
Rapporti importanti, utili a decifrare genesi ed evoluzione delle rispettive estetiche. Era ben conosciuto il ruolo da Puccini giocato nel proteggere e promuovere i post macchiaioli di Torre del Lago come Ferruccio Pagni (fu lui che portò Plinio Nomelllini a Torre del Lago), mentre i legami con gli artisti della Scapigliatura milanese, intessuti negli anni giovanili in cui risiedeva nel capoluogo lombardo, sono una novità. «L’arrivo di Plinio Nomellini gioca un ruolo importante. Puccini non amava il divisionismo, Nomellini lo converte. Di Nomellini da Ca’ Pesaro esponiamo La sinfonia della luna, un polittico in quattro parti, così come una sinfonia, che è una vera opera musicale. Da allora Puccini diventa sempre più modernista, sia come collezionista che come musicista». Sulla sua evoluzione in tal senso non c’è da dubitarne, se un grande direttore come Zubin Mehta ogni volta che affronta Turandot, suo ultimo incompiuto capolavoro, ama ripetere: «Sono assolutamente convinto che Puccini, se avesse continuato a vivere, alla fine sarebbe approdato alla dodecafonia». A proposito di Turandot, che Puccini non riuscì mai a vedere in teatro, va ricordato come fu lui a imporre come scenografo per la prima scaligera Galileo Chini. «Esiste una lettera di Puccini a Ricordi in cui testualmente afferma: bada che questo non è uno scenografo qualunque, ma un grande artista», ci rac- conta Bolpagni. «Puccini d’altronde era molto interessato a Chini, alle sue esperienze e alla sua conoscenza diretta dell’Oriente, dato il suo lungo soggiorno in Siam. Un rapporto e un’amicizia che durò fino all’ultimo e si interruppe solo con la morte di Puccini».
D’altro canto, sottolinea Bolpagni nel saggio in catalogo (come in realtà è successo spessissimo) negli anni fra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale non esiste un parallelismo fra il linguaggio artistico e quello musicale. Per intenderci, non si può parlare di musica liberty o art nouveau, né nel caso di Madama Butterfly né in quello della Iris di Mascagni. Diverso è il caso dei rispettivi manifesti e illustrazioni. Che se denotano visivamente le opere in oggetto, non per questo ne sostituiscono linguaggio e materia. Sui gusti di Puccini, che era un collezionista attento, sempre interessato alle cose dell’arte, le ricerche per la mostra hanno portato a rinvenire preziosi documenti. «Ho trovato nell’archivio della villa di Torre del Lago —ci spiega Bolpani — il catalogo illustrato della Biennale veneziana del 1895, che già sapevamo Puccini avesse visitato, costellato di sue annotazioni autografe». Ma sono venuti fuori anche documenti a testimonianza di rapporti con artisti di cui fin’ora nulla si sapeva, come quello, sorprendente, con un Filippo Tommaso Marinetti non ancora futurista. Che, dichiara Bolpagni, nutriva una sconfinata ammirazione per Puccini. C’è poi Lionello Balestrieri, delle cui frequentazioni pucciniane niente si sapeva, e soprattutto Gaetano Previati, per cui Puccini nutriva grossa ammirazione, tanto da riuscire a farsi organizzare nel 1912 una visita allo studio dell’artista. Acquistando due opere che purtroppo ancora non sono state individuate. Di Previati Puccini aveva ammirato il Notturno e La danza, attualmente entrambe al Vittoriale, il prestito più prestigioso in mostra, visto che il Vittoriale non se ne era mai privato contemporaneamente. Non solo, ma Puccini nel 1910 era stato uno dei sottoscrittore della Società per l’arte di Gaetano Previati. C’è l’apprezzamento per un giovanissimo Alberto Martini, e tanto d’altro. Compresa la riflessione sulle sue tre case, sintetizzate in mostra da poetiche casettine ideate da colei che ha curato l’allestimento, la celebre Margherita Palli.
Così la Fondazione Ragghianti rende omaggio, nel centosessantesimo anniversario della nascita, al genio del compositore lucchese, l’ultimo grande musicista italiano di fama planetaria. Ce lo conferma Bolpagni: «Noi non ce ne rendiamo conto, ma Puccini era al momento del suo decesso il compositore più popolare del mondo. Non c’è parallelismo possibile oggi. E come italiano diciamo che forse se la giocava con Gabriele D’Annunzio». A riprova della sua enorme popolarità bastano i pochi fotogrammi rinvenuti sul suo funerale a Bruxelles, dove un immenso fiume di gente, di ogni classe sociale (si riconoscono molti semplici popolani), segue il feretro commossa per rendergli omaggio.
Il nostro era molto interessato al genio del liberty e per questo lo volle per quell’opera che non avrebbe mai visto in scena, sapeva del suo lungo soggiorno in Siam