Corriere Fiorentino

UN AMORE IN FRANTUMI NEL SILENZIO DI CAPALBIO

Il momento del trasloco. la solitudine, e una sedia di vimini rotta. Nella casa vuota

- di Andrea Caciagli

Sulla sedia di vimini davanti alla finestra il caldo era meno soffocante. Il vento sulla pelle gli dava un po’ di sollievo e faceva frusciare i teli di plastica avvolti intorno agli oggetti della casa. Lo circondava­no, tutti allineati ordinatame­nte lungo le pareti. Il televisore, c’è. Il tavolo di legno, c’è. La fruttiera decorata, c’è. Scorreva la lista col timore distratto di aver dimenticat­o qualcosa. Le sue solite fissazioni: la casa era vuota. Tutto era imbustato o chiuso in scatole di cartone con precisione geometrica: i biglietti delle mostre, la scacchiera africana con i pezzi intagliati a mano, i disegni colorati che lei gli aveva fatto. Anche i libri c’erano tutti, escluso Conrad, quello doveva esserselo portato via. Soltanto la sedia di vimini resisteva, al centro della stanza.

Guardava fuori ripensando ai pomeriggi d’estate, quando lei riposava sul letto con indosso solo le mutande e lui scarabocch­iava su quei grandi blocchi con l’inchiostro liquido della Hi-Tecpoint V5 a punta fine. Adesso la penna gli serviva solo per spuntare la lista della ditta di traslochi che sarebbe arrivata di lì a poco. Quando le cose si rompono, pensò, non tornano mai più come prima. Tentiamo disperatam­ente di ricomporle finendo per trasformar­le in riproduzio­ni, in copie mal riuscite. Ogni oggetto aggiustato non è altro che un’imitazione di ciò che era. E così gli specchi infranti, i corpi feriti, gli amori al secondo tentativo. La rottura è una delle poche cose che non siamo in grado di prevedere: quale esatto punto del vetro lo farà andare in frantumi, in quanti pezzi andrà un bicchiere quando cade a terra. Non possiamo saperlo finché non arriva il momento del contatto.

Già, che paradosso, senza unione non ci può essere rottura. Se due oggetti non si scontrano con la giusta forza, niente si rompe. Come a dire che per lasciarsi bisogna amarsi tanto. Trattenne il respiro. Nel silenzio del primo pomeriggio si sentivano soltanto il canto delle cicale e il fruscio della plastica. Una crepa nell’impugnatur­a della penna faceva cadere piccole gocce nere sul parquet. Si guardò intorno e decise che non voleva restare seduto lì un minuto di più. Si alzò di scatto dalla sedia. Crac!

La porta chiusa e la lista lì appesa, le chiavi sotto il vaso di fiori, dove lei le avrebbe trovate. Osservò la piazzetta — quante volte l’aveva disegnata: le porte, le scale, i lampioni e gli archi, le piante fiaccate dal caldo che pendevano dai vasi. C’era un taglio, tra le case, uno spaccato sulla campagna ai piedi del paese inquadrato da una cornice verticale. Scese da lì, passando accanto alla panchina dove si erano abbracciat­i a lungo una sera, accanto al ristorante dove avevano bevuto il Morellino che gli aveva dato alla testa.

Quando mise la mano sulla maniglia dell’auto parcheggia­ta sull’angolo di via Carducci il gesto lo rigettò indietro di dieci anni, alla prima estate a Capalbio insieme. Aprì il bagagliaio e la dama d’olio nuovo perse il suo equilibrio precario, schiantand­osi sull’asfalto. La scia verdastra scivolava sotto le ruote seguendo l’inclinazio­ne della strada. «Sai che se cade l’olio sono sette anni di sfortuna? Come gli specchi», disse lei. «Dicono che chi lo fa cadere a terra è destinato ad abbandonar­e la propria casa». Se non era un segno quello.

La vecchia Panda singhiozzò e si mise in moto con uno starnuto. Stava in piedi per mi- racolo — regge l’anima co’ denti, avrebbe detto lei — e lui non smetteva di immaginars­i che da un momento all’altro, a una chiusura un po’ troppo violenta della portiera, potesse andare in pezzi come in una di quelle commedie americane.

Il vialetto sterrato all’ingresso, la piazza con il drago, la Papessa, il Mago e la fontana, la Torre di Babele. Il Giardino dei Tarocchi era proprio come lo ricordava. Glielo fece scoprire lei, e lo visitarono per la prima volta insieme; adesso era solo anche lì. Il vento si faceva spazio tra le sculture portando con sé le voci di qualche invisibile turista. Le statue colorate ne inghiottiv­ano a decine, nascondend­oli nei loro stomaci come i capodogli di Collodi.

Varcò la porta blu vegliata dal Sole, un grande uccello variopinto, e passeggiò tra gli ulivi con una direzione precisa. La Sfinge lo accolse indifferen­te tra i suoi enormi seni. Spinse la porta. La stanza era vuota, ma come vi entrò si riempì d’improvviso di gente, perché gli specchi che ricoprivan­o la pancia della Sfinge rifletteva­no la sua figura dalla testa ai piedi, e moltiplica­vano la sua immagine in una folla di imitatori distinti e pedissequi, vestiti esattament­e come lui, che avevano gli stessi gesti controllat­i e limitati, che si muovevano quando si muoveva lui, e possedevan­o proprio quelle stesse sembianze di vita e di sentimenti che lui credeva dignitoso e sicuro, da parte di qualsiasi uomo, manifestar­e. E come gli uomini che rispettava, si poteva contare che non avrebbero fatto niente di personale, originale o sorprenden­te — niente di imprevisto e niente di sconvenien­te. Le parole di Conrad gli risuonavan­o in testa mentre le mura di specchi lo mettevano di fronte a quelle versioni deformi di se stesso. Gliele aveva lette lei, pochi giorni prima di andarsene di casa per sempre.

L’ho ingabbiata con le mie manie, con le mie fissazioni? Si voltava cercando di ritrovarsi, ma quelle geometrie lo facevano a pezzi con violenza: una mano, una gamba, un occhio. Schiere di sé lo fissavano severe da ogni angolo. Un piede, un naso, un orecchio: erano migliaia eppure nessuno. La brutalità della sua vita ordinata lo colpì come una rivelazion­e. Crac!

Le pareti della casa erano nude, non si sentiva più un rumore. I teli di plastica erano scomparsi e con loro tutti gli oggetti imballati, il sole che entrava geometrico dalla finestra aveva asciugato l’inchiostro sul pavimento e anche la sedia non c’era più. Al suo posto, sul parquet macchiato di nero, un breve biglietto nella calligrafi­a di lei. «Ho provato a sistemare la sedia di vimini, ma c’era poco da fare. L’ho buttata».

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 ??  ?? Andrea Caciagli (Fiesole, 1991) lavora e scrive di cinema tra Firenze e Roma. Dirige la rivista L’Eco del Nulla ed è codirettor­e del festival Firenze RiVista. Ha scritto su Il lavoro culturale, 404: file not found, In fuga dalla bocciofila
Andrea Caciagli (Fiesole, 1991) lavora e scrive di cinema tra Firenze e Roma. Dirige la rivista L’Eco del Nulla ed è codirettor­e del festival Firenze RiVista. Ha scritto su Il lavoro culturale, 404: file not found, In fuga dalla bocciofila

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