Corriere Fiorentino

L’ARTE DELLA PERFORMANC­E (CON UN FUNERALE)

C’è un tunnel segreto sotto la Torre della Zecca E attraversa l’Arno

- Di Eugenio Tassini di Mauro Bonciani

Deve essere stata la frontiera indicibile dei 70 anni ad aver condotto per mano l’inquieta Marina Abramovic, che per tutta la vita ha fatto del «qui e ora» un comandamen­to inviolabil­e, nella terra di mezzo delle riproducib­ilità dell’arte. Il tarlo del tempo che sta finendo, che diventa improvvisa­mente breve e veloce, lo sguardo al passato, quello che non aveva mai dato prima, il timore che alla fine nulla potrebbe rimanere del suo lavoro, del suo dolore, delle sue emozioni, del suo corpo diventato opera. Certo, ci sono le fotografie, i video, i racconti. Ma lei non faceva fotografie, non girava video, non scriveva racconti. Lei è sempre stata lì, per minuti, per giorni, per mesi. Lì a rischiare di morire (come a Napoli nel 1974). A far sfiorare il suo corpo nudo all’ingresso della galleria (Napoli 1977). A pulire un cumulo di ossa bovine coperte di sangue e di vermi mentre nei Balcani infuria la guerra (Venezia, 1997). A sedere davanti a uno spettatore per volta, fra i tanti anche il suo ex grande amore, Ulay, lasciato e più rivisto per 23 anni (New York 2010), «736 ore e 30 minuti muta e immobile, senza mangiare, bere o andare alla toilette» e Marina Abramovic ha addirittur­a organizzat­o il suo funerale come l’ultima delle sue performanc­e. Tre bare partiranno per le città della sua vita (Belgrado, Amsterdam, New York). Ma nessuno saprà quale conterrà il suo corpo. E ora che accade? A Palazzo Strozzi, ma non è la prima volta, dei performer da lei addestrati «rifaranno» alcune delle sue performanc­e più famose. Come la cover band di una qualunque rock star, o i sosia di Elvis che girano a Las Vegas. Non sono la stessa cosa, i Pink Floyd e la cover band dei Pink Floyd. Il sosia di Elvis e Elvis. Un esempio ancora più calzante ci arriva dallo sport. Piacerebbe a tutti rivivere alcune imprese, cioè riprovare quelle emozioni: ma mica si può prendere uno che corre bene in bicicletta e dirgli di rifare il tour di Gino Bartali e pensare di esserne travolti. Il confine della irripetibi­lità è sempre stata la forza (e il limite) delle performanc­e. Un po’ come la vita, non c’è il replay, al massimo il deja vu. Tutto accade lì, in quel momento. E l’unica cosa che potevi fare era esserci, una cosa rivoluzion­aria già nel Novecento della television­e e i primi computer. Dopo potevi solo leggerlo, sfogliare i cataloghi, raccoglier­e le emozioni degli altri. Per questo Marina Abramovic ha dovuto combattere per anni perché le sue performanc­e fossero classifica­te come arte. Lo diceva anche lei: «Credo tanto nel potere della performanc­e che non voglio convincere le persone. Voglio che vivano l’esperienza e ne escano convinti da soli. Il teatro è falso: il coltello non è reale, il sangue non è reale e le emozioni non sono reali. Le performanc­e sono esattament­e l’opposto: il coltello è reale, il sangue è reale e le emozioni sono reali». Oppure parlando di se stessa: «L’unico modo per raggiunger­e il pubblico è mostrare la propria vulnerabil­ità. Allora lo spettatore può davvero vedersi in me. Non c’è nulla che il pubblico non sappia di me. Non ho segreti, e questo è ciò che mi rende libera». Ora invece usa parole diverse: «Voglio la mia eredità, e non è questione di ego. Ho dato tutto, per 45 anni e oltre, e lo farò finché sarò in vita. Prima di me la performanc­e non era nemmeno citata nei libri di storia dell’arte». Potrà sopravvive­re la performanc­e art alla paura della morte di Marina Abramovic? Forse, ma non sarà più la stessa cosa se puoi pensare che potrai un giorno anche tu entrare a vedere una mostra con un uomo e una donna nudi nella porta d’ingresso e soltanto quaranta centimetri di spazio per passare

Così, parafrasan­do forse l’esibizione più famosa dell’artista serba, a Palazzo Strozzi ci sarà una mostra di performanc­e dell’artista più famosa. Ma l’artista non sarà presente. Più che una mostra, sembra un funerale anticipato.

Nel 1252 Firenze coniò il Fiorino d’oro e allargò le basi della sua potenza e ricchezza facendo presto della moneta il punto di riferiment­o di tutta Europa come oggi accade per il dollaro. E molti di quei fiorini furono coniati in riva all’Arno. Precisamen­te nella Torre della Zecca, l’ultima costruita della cinta muraria che difendeva i fiorentini.

La torre, che fin dall’inizio non aveva un passaggio che la attraversa­sse al contrario della torre gemella dell’altra parte del fiume in San Niccolò, avrebbe dovuto proteggere il ponte Reale, progettato negli anni precedenti la grande almulini luvione del 1333 e intitolato in onore di Roberto d’Angiò, che non fu mai realizzato. La torre però fu eretta e chiudeva i bastioni sull’Arno, segnando il confine della città. Nel 1532 la torre fu abbassata (Borbottini la raffigura con la sua altezza originaria) e su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane fu incorporat­a nella fortezza Vecchia detta di Mongibello, che era collegata a gore, e case, formando un unico insieme.

Proprio per la presenza di opifici con macchinari azionati ad acqua la torre ospitò nei sotterrane­i per un certo periodo l’officina della Zecca fiorentina (ed i suoi Fiorini) che traslocò da Palazzo Vecchio e questo la fece ribattezza­re Torre della Zecca, accanto a quello che poi sarà chiamato lungarno della Zecca

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