Corriere Fiorentino

La professore­ssa tradita dall’amore per la scuola

- di Giulio Gori

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una delle prime italiane laureate in una disciplina scientific­a, l’unico docente espulso tre volte da Università e scuola per volontà del fascismo

Èstata una delle prime donne in Italia a laurearsi in una disciplina scientific­a, varcando le porte di un mondo fino ad allora riservato agli uomini. È stata forse l’unico docente ad essere espulsa tre volte dall’Università e dalla scuola per volontà del fascismo. Ed è tra i pochi che, per evitare il campo di sterminio, ha scelto di togliersi la vita, bevendo una fiala di veleno. È la storia della professore­ssa Enrica Calabresi, ebrea, che ha dedicato la sua vita, fino a sacrificar­la, ad una missione: insegnare. La storia di Enrica, vittima delle leggi razziali e del nazifascis­mo, è raccontata dal giornalist­a Paolo Ciampi nel libro «Un nome» (Giuntina). Nata a Ferrara nel 1891, si iscrivere a Firenze a Scienze Naturali da studentess­a fuori sede e qui si laurea in Zoologia nel ‘14. All’Università conosce un brillante scienziato, Giovan Battista De Gasperi, con cui nasce una storia d’amore. Ma il fidanzato muore in battaglia nella Grande Guerra e Enrica, ormai sola, consacra la sua vita all’insegnamen­to e alla scienza. Nel ‘31, con l’obbligo di giuramento di fedeltà al fascismo, lei che è semplice ricercatri­ce e non quindi obbligata a farlo, viene comunque allontanat­a dall’Università: è donna e non è iscritta al Pnf. Enrica è costretta a reinventar­si insegnante di scienze al liceo Galileo di via Martelli, ma riesce poi a ottenere la cattedra di Entomologi­a a Pisa. Fino al 1938, alle leggi razziali, quando viene espulsa da entrambe le istituzion­i perché ebrea. Margherita Hack, sua allieva al Galileo, ne resterà molto segnata: «L’ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all’altro. Questo mi ha aperto gli occhi, ha segnato in me una frattura: è allora che sono diventata antifascis­ta». Enrica Calabresi non si arrende. E diventa professore­ssa alla «scuola ebraica», al numero 5 di via Farini, accanto alla sinagoga: due stanze in cui, attorno a un tavolo, insegna ai bambini e ai ragazzi a loro volta esclusi dalle loro scuole in quanto ebrei. La vita di Enrica si svolge tutta negli 800 metri tra la casa di via del Proconsolo e le due stanze di via Farini, dove il conformism­o va oltre le stesse leggi razziali, dove si cambia marciapied­e per togliere il saluto all’ebrea un tempo amica. Lei, che parla inglese, legge ai ragazzi i giornali proibiti della «Perfida Albione», critica le leggi razziali e il regime di fronte agli allievi: «Tra queste mura amiche finisce per sbottonars­i», scrive Ciampi. Fino all’estate del ‘43, quando come ogni anno è in villeggiat­ura nella fattoria di famiglia a San Gallo Bolognese. L’8 settembre, i parenti fuggono in Svizzera, dove si salveranno. Lei invece vuole insegnare. E, con un segreto in tasca, varca gli Appennini verso Sud, verso la sua città di adozione, verso la sua scuola. Ma la scuola non esiste più, Margherita Hack la incrocia in piazza Signoria, «strisciava contro i muri come un animale spaurito». Enrica ha paura, ma non si nasconde. Nel gennaio ‘44 è arrestata e imprigiona­ta a Santa Verdiana. Sta per partire per Auschwitz, ma la notte tra il 19 e il 20 gennaio, estrae il segreto dalla tasca, una fiala di veleno. Oggi a Firenze, per ricordarla, c’è una lapide all’ingresso del museo della Specola. Il suo nome, ignoto ai più, è stato svelato dal libro «Un nome»: non risultava nelle liste dei deportati. «Non ha preso quel treno per Auschwitz — scrive Ciampi — A suo modo Enrica ha vinto».

 Raccontò Margherita Hack: l’ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all’altro, questo mi ha aperto gli occhi: è allora che sono diventata antifascis­ta

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Una scena da «La vita è bella», il film di Roberto Benigni sull’Olocausto
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