IL PASSO DI TROPPO DELLA POLITICA
Continua a far discutere la lettera indirizzata al sindaco di Siena Luigi De Mossi da tre consiglieri comunali della Lega e dal coordinatore di FdI. Nella missiva il quartetto assicura al primo cittadino di aver abbandonato l’incontro, organizzato a Siena e non a Roma.
Avrebbero abbandonato l’incontro organizzato dal delegato ai Trasporti di Roma per la Lega, nativo di Siena, il civettino Sergio Pannacci, perché ritenuto «irricevibile» quanto sollecitato, un intervento in merito alle sanzioni del Comune soprattutto contro il fantino Gingillo montato dal Valdimontone, il cui capitano sedeva al tavolo insieme proprio al fantino e alla sua fidanzata. Perché la lettera è stata fatta circolare proprio nel giorno in cui le assemblee di Contrada dovevano pronunciarsi sul Palio straordinario? E perché si è data evidenza pubblica ad un chiarimento che poteva intervenire riservatamente? È complicato ipotizzare le ragioni che hanno spinto a prendere le distanze da un incongruo rendez-vous, del quale si parlava da giorni. Probabilmente il sindaco era parecchio irritato dalle voci e dai veleni che ne discendevano. Era stato lui a formulare la severa proposta incriminata o, come previsto, l’assessore al Palio? Per allontanare spiacevoli ombre si è degradato l’incontro ad un vano colloquio senza conclusione. E si è tolto, così, dalle nebbie dei chiacchiericci. Al di là di come sono andate effettivamente le cose, l’episodio porta — riporta — alla luce un tema spinosissimo. Il Palio è una festa che teatralizza e sancisce ruoli, dà prestigio, o disdoro, ai protagonisti, influisce sulla considerazione di persone e gruppi. Da sempre. In questo senso gli è connaturata una dimensione che è lecito definire anche politica, nella sua accezione alta e buona. Ma negli ultimi tempi gli intrecci tra disegni della politichettaspettacolo e obiettivi delle confuse frazioni che ha partorito si è fatto più percepibile, offuscando consuetudini radicate. Non è stata presa bene l’irruzione, a luglio, di una folta rappresentanza leghista ai balconi del Palazzo Pubblico, quasi a marcare una presa del potere destinata a dare inizio — si è detto — ad una nuova storia della città. Dal chiacchierato e di per sé banale episodio che la lettera sceneggia, emerge il segnale di un decadimento in allarmante sintonia con le sbrigative maniere e le forzature verbali di questi giorni. In nome di un’operazione propagandata all’insegna del civismo «antipolitico» ci si sta incamminando per una strada del tutto opposta. Il Palio è allegoria sintomatica di vizi e virtù contemporanei. La politica — mi uniformo al linguaggio corrente — deve fare un passo, o più d’uno, indietro, se a furia di occuparsi di tutto non vuole ingigantire i lati più oscuri di una crisi che sparge veleni e fomenta ostilità: anche nei luoghi e negli avvenimenti estranei alle insidie quotidiane. Aldo Palazzeschi, allontanandosi da Siena, dopo aver assistito a un Palio, confessò di aver abitato per qualche giorno felice «dove i più schietti parlatori d’italiano giuocano con tanta grazia alla discordia, astutamente solleticando l’istinto profondo che dorme nell’uomo o sonnecchia». E non si potrebbe dir meglio di un rito comunitario, che non tollera furberie esterne al codice della sua antica vitalità.