La porta del corpo (a Palazzo Strozzi)
Domani parte la retrospettiva dell’artista serba con 100 opere per 50 anni di arte Video, foto, re-performance delle sue azioni sceniche: le ho fatte fare per arrestare il loro uso sui media
Avvertenza per il pubblico. La mostra sui 50 anni di carriera di Marina Abramovic’ ha bisogno di tempo. Quindi se ne avete poco rimandate a un giorno poco affastellato di impegni la vostra partecipazione a The Cleaner, da domani a Palazzo Strozzi fino al 21 gennaio.
Le ragioni sono tante: intanto perché il lavoro sul corpo che l’artista serba ha fatto con le sue performance è sempre stato legato a una riflessione sui suoi (del corpo) limiti e sul tempo che occorre a percepirli e a superarli: e in questo senso è centrale il suo The artist is present messo in scena al Moma di New York nel 2010 quando sette ore al giorno, per tre mesi, Marina è rimasta seduta su una sedia a fissare negli occhi chi sedeva sulla sedia di fronte in un’azione scenica durante la quale si è presentato anche il suo ex compagno di vita Ulay con conseguente commozione di entrambi, e qui riprodotto con due sedie vuote a sottolineare l’assenza dell’artista vivente. E poi perché le performance che vedremo a Palazzo Strozzi, sono i video di quegli eventi o re-perfomance e cioè reinterpretazioni delle sue azioni sceniche fatte da giovani formati dal suo studio. Questo rifare cambia la nostra percezione delle scene — togliendo l’effetto sorpresa e la relazione diretta con il corpo trasformato in opera d’arte della stessa Abramovic. È innegabile. Anche se è lei stessa a spiegarci il senso dell’operazione: «Sono stata io a inventare la re-perfomance, ero furiosa di come i media usavano le performance facendole passare in video e non riconoscendo alcun diritto a chi le aveva create. Ho voluto mettere ordine in questo caos». Non basta: «Ridare vita con soggetti diversi a quelle azioni è un modo per superare la caducità dell’artista. Cosa succederà delle sue performance quando sarà morto?».
Ci lascia con questa domanda Marian Abramovic’, «prima donna a cui Palazzo Strozzi dedica una retrospettiva» come ha ricordato, Arturo Galansino direttore generale della Fondazione e tra i curatori di The Cleaner e con un impegno: «la prossima mia performance, quella che non ho ancora fatto, l’ho programmata per il 2020 alla Royal Academy di Londra». Questo per dire che qui a Firenze, nella retrospettiva che interessa sia i locali della Strozzina che quelli del piano nobile del Palazzo, di opere nuove non ce ne sono. C’è qualche inedito. La mostra copre 50 anni di lavoro, offre due sue opere anche al Museo dell’Opera del Duomo, e consta di tre tipologie di opere: foto, video e installazioni; situazioni che rendono indispensabile la partecipazione del pubblico; re-performance. Le prime opere dal ‘65 al ‘75, portano tracce anche del «talento» pittorico di Abramovic’, che affida alla Strozzina il suo manifesto della vita dell’artista in cui si legge: che egli «non dovrebbe mai mentire a se stesso», che «dovrebbe soffrire», ma non «essere depresso», che «dovrebbe comprendere il silenzio», «morire in modo consapevole senza paura e dare istruzioni per il proprio funerale» che è la sua «ultima opera d’arte». Come si vede la compenetrazione tra chi fa arte e la sua arte è totale. Come lo è stata fino a oggi nel suo caso. Dunque i video, le foto, i documenti scelti per la retrospettiva vanno letti, in questa mostra, con sguardo storiciz- zante, ricordando cioè quando e perché sono nati. Prendiamo l’opera che dà inizio al percorso al piano nobile di Palazzo Strozzi: un ragazzo e una ragazza nudi, posti uno di fronte l’altro sotto agli stipiti di una porta, invitano il visitatore a entrare in mostra strusciando il proprio corpo contro le loro nudità. Cosa che ieri sera ha fatto anche lei. È questa, tra le re-perfomance, quella che cita Imponderabilia, l’azione scenica che lei e Ulay, l’ex compagno, fecero per Bologna nel ‘77, quando la loro relazione di coppia divenne oggetto di rappresentazione essa stessa. Passarci dentro, anche se non sono più loro i
Progetti
«La performance che non ho ancora fatto e che sogno di fare? È quella che vedrete nel 2020 alla Royal Academy»
protagonisti crea un certo imbarazzo. È questione di prossimità e contatto fisico e non di pudore. Forse nel ‘77 l’impressione sarà stata diversa. Tra le performance riproposte più riuscite c’è Luminosity — l’edizione originale risale al ‘97 — in cui una sua «replicante» sta seduta nuda sul sellino di una bici in una posizione che evoca quella di un crocifisso. Forse per questo quando si esce dalla sala si avverte il bisogno di non dare le spalle alla performer, come si fosse davanti a un altare. La carrellata di opere è lunga — sono cento in tutto: c’è il video di Rhythm O, quando nel ‘74 Marina, a Napoli, si offrì per sei ore al pubblico invitandolo a usare contro il suo corpo qualunque oggetto presente, compresi coltelli e pistola. C’è la riproposizione di Balkan Baroque, quando nel ‘97, dopo mille polemiche, vinse il Leone d’oro alla Biennale di Venezia con il suo atto scenico contro ogni guerra (puliva delle ossa sanguinolente senza interruzione) che era anche un omaggio alla sua terra martoriata dalla violenza. Ci sono, e sono opere più recenti (del 2015) quei legni, quei cristalli su cui lo spettatore è invitato a poggiarsi e a sdraiarsi per lasciare solo trascorrere il tempo e lasciare fluire energia. C’è tutta Marina, manca solo lei.