Corriere Fiorentino

UNA PSICHIATRI­A CHE CURI, NELLE CARCERI E ANCHE FUORI

La cronaca dimostra la deriva: pochi soldi, poche strutture. E un equivoco di fondo...

- Di Gemma Brandi e Mario Iannucci*

Tre notizie. La prima: nel Mugello, un uomo di 34 anni uccide il figlio di un anno e tenta di uccidere la moglie e l’altra figlia di 7 anni. L’uomo era in cura da anni presso psichiatri del servizio pubblico e ultimament­e, pare, presso uno psichiatra privato. La seconda notizia: nel carcere di Civitavecc­hia (che ha una Sezione di Osservazio­ne Psichiatri­ca) due detenuti si uccidono in 24 ore.

Nello stesso carcere e nelle stesse ore una detenuta viene salvata da un serio tentativo di suicidio. La terza notizia: nel «nido» del carcere di Rebibbia, a Roma, una detenuta trentatree­nne, di nazionalit­à tedesca, scaraventa giù dalle scale i suoi due bambini: la prima, di sei mesi, muore sul colpo; il secondo, di due anni, è morto ore dopo in ospedale. «Ora sono liberi», ha dichiarato la madre.

Cosa hanno in comune questi episodi e quali riflession­i è bene che stimolino in tutti? La prima riflession­e è che attualment­e le carceri italiane, in maniera forse un po’ superiore a quanto peraltro avviene in tutto il mondo, sono stracolme di persone che presentano gravi o gravissime turbe psichiche. L’uomo che ha ucciso nel Mugello il figliolett­o e ha tentato di uccidere la moglie e un’altra figlia, è attualment­e ristretto in una prigione ordinaria, non è ricoverato in ospedale. I due uomini che si sono uccisi a Civitavecc­hia erano reclusi anche loro in un carcere ordinario. Il «Nido» di Rebibbia si trova in un carcere ordinario. Ma è mai possibile che nessuno — tantomeno la psichiatri­a «ufficiale e accademica» — avvii una seria riflession­e sulla pericolosi­tà sociale dei pazienti con gravi turbe psichiche, allo scopo di prendersen­e cura, invece di argomentar­e intricati e ben poco intriganti dissertazi­oni sul pericolo che causerebbe­ro certe patologie psichiatri­che mimetizzat­e e non quelle evidenti al profano? Gli psichiatri che hanno davvero e seriamente curato, nella loro attività clinica, pazienti con gravi patologie psichiche (chiamiamol­e con il loro nome scientific­o: disturbi deliranti cronici, schizofren­ie, disturbi depressivi severi e disturbi bipolari, «deep and dangerous» disturbi di personalit­à), sanno perfettame­nte che, in talune fasi critiche del decorso di tali patologie, si possono presentare delle impennate della pericolosi­tà sociale: chi ne è portatore può uccidersi, uccidere, uccidere e uccidersi. È per questo che gli psichiatri sono, dalla legge, chiamati nella «posizione di garanzia»: assumono, curando i malati anche qualora questi ultimi non vogliano curarsi, la responsabi­lità di tutelare loro stessi e la società dai pericoli cui le severe patologie psichiche, talora ma non infrequent­emente come si vorrebbe dare ad intendere, espongono.

Lo scorso luglio il ministro degli Interni Matteo Salvini, con la franca ruvidezza che lo contraddis­tingue, ha affermato, dapprima a Pontida e quindi in tv, che «c’è quest’anno un’esplosione di aggression­i per colpa di malati psichiatri­ci e qua non è competenza del (suo, ndr) ministero, però evidenteme­nte c’è da rivedere il fatto che sia stato abbandonat­o il tema della psichiatri­a e lasciato solo sulle spalle delle famiglie italiane chiudendo tutte le strutture di cura per i malati psichiatri­ci». Possiamo dire che l’analisi del ministro è totalmente sbagliata, come hanno fatto molti psichiatri, comprese talune autorevoli società e associazio­ni profession­ali? Possiamo dire che l’affermazio­ne di Salvini è generica, come è inevitabil­e che sia quando prende la parola una persona che non è addetta ai lavori, anche se ricopre il ruolo di ministro. Ma non possiamo certo dire che non risponda in parte a verità. L’«esplosione di aggression­i» da parte di gravi malati psichici non è avvenuta solo nell’ultimo anno, ma certo negli ultimi decenni il problema ha subito una impennata. Questo non è dovuto unicamente alla indubbia esiguità delle risorse economiche destinate alla salute mentale, ma anche al fatto che la salute mentale pubblica, quella che istituzion­almente deve occuparsi della cura delle gravi patologie psichiche, ha dedicato una attenzione decrescent­e alla necessità di imporre una cura, quando necessaria, ai pazienti che a quella cura tendono a sottrarsi proprio a causa della loro patologia. L’attenzione alla cosiddetta «coazione benigna» (il dovere, da parte degli operatori della salute mentale, di prendersi cura dei pazienti, anche se questi ultimi rifiutano le cure; la costruzion­e e il manteni- mento di relazioni terapeutic­he, proprio nelle situazioni di rifiuto delle cure, è parte integrante dell’arte terapeutic­a dei buoni operatori e dei buoni servizi) è andata progressiv­amente decrescend­o, così come sono senza dubbio calate, negli ultimi decenni, le opportunit­à terapeutic­he residenzia­li che sono indispensa­bili in certe fasi critiche o subcritich­e delle patologie: i ricoveri nei Spdc (servizi psichiatri­ci di diagnosi e cura) durano pochissimo, con gli psichiatri e i servizi che vengono penalizzat­i per i ricoveri protratti o ripetuti; le «comunità terapeutic­he» gestite dai servizi pubblici sono, sul territorio italiano, totalmente insufficie­nti e la dotazione di personale è scandalosa­mente impari rispetto ai bisogni; alla chiusura degli Opg (che erano senza dubbio luoghi «indegni di un Paese appena civile») non è certo seguita la costituzio­ne di un circuito virtuoso che mettesse a disposizio­ne una assistenza di salute mentale integrata tra Rems, strutture psichiatri­che penitenzia­rie e Servizi di Salute Mentale. Anzi: l’orientamen­to prevalente della psichiatri­a, specie di quella forense, è nei fatti quello di ridurre progressiv­amente il plateau di coloro che vengono valutati, e quindi giudicati, «totalmente incapaci di intendere e di volere» al momento dei fatti. La conseguenz­a diretta è che le carceri ordinarie si riempiono di pazienti affetti da gravi patologie psichiche, che in carcere non riceverann­o cure adeguate, trattandos­i appunto di carcere. Certo: questo risponde al preciso disegno, espresso a chiare lettere da molti rappresent­ati delle istituzion­i e dei governi pregressi, di «abolire il doppio binario» per i pazienti psichiatri­ci, abrogando il vizio totale e quello parziale di mente, restituend­o ai rei-folli il «diritto alla pena».

I tempi mutano. Molti di coloro che adesso vengono chiamati stalker venivano riconosciu­ti come erotomani (una delle forme più pericolose di psicosi delirante) fino a ieri. Occorre abituarsi alla presenza in strada di persone che bevono in eccesso e/o che assumono comportame­nti bizzarri e molesti su base psicopatol­ogica. D’altra parte, perché limitare la presenza di winebar e precludere il piacere delle happy hours? E inoltre: perché non riconoscer­e che, in fondo in fondo, siamo tutti «abbastanza uguali» e che «un ramo di follia non lo si nega ad alcuno»? Di questo passo la psichiatri­a, che è nata nelle carceri e che invece oggi, di coazione benigna e di carcere, non vuole più occuparsi, finirà per esaurire le sue funzioni, che sono sicurament­e di cura e, perciò, anche di controllo delle situazioni di pericolo.

A proposito dell’infanticid­io del «Nido» di Rebibbia, ci sarà certo chi si ostinerà a dire che si è trattato di un «raptus» e imputerà la responsabi­lità dell’episodio alle discusse norme relative alla facoltà delle madri detenute, qualora lo vogliano e possano farlo, di tenere con loro i figli finché sono piccoli. Un modo per spostare l’attenzione dal vero focus: non tutte le detenute madri fanno del male ai loro figli in quanto recluse, anzi! Più opportuno sarebbe approfondi­re le condizioni mentali della madre di cui sopra al momento in cui ha commesso i reati per cui la si è detenuta e, soprattutt­o, quali fossero dette condizioni quando ha gettato i piccoli figli giù dalla scale. Infine una domanda: si pensa e in quale modo, con quali strumenti, in quale luogo di tutelare ora la psiche e la vita di questa donna, una psiche e una vita di certo duramente provate?

Tre casi

A Civitavecc­hia due suicidi in cella in 24 ore, a Rebibbia una donna ha ucciso i due figli nel nido del penitenzia­rio L’uomo che in Mugello ha ucciso il figlio era sì in cura, ma non era ricoverato in ospedale

La falla

Alla chiusura degli ospedali psichiatri­ci giudiziari non è seguita la creazione di un circuito che integrasse Rems, strutture psichiatri­che penitenzia­rie e servizi di salute mentale

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