Corriere Fiorentino

Come davanti a una figlia, nella stanza del Codice rosa

- Di Alessio Gaggioli

L’ambulanza del 118 arriva al pronto soccorso nel cuore della notte. Il medico e l’infermiere si trovano di fronte una ragazza minuta, piena di lividi, con il volto tumefatto dai colpi. Terrorizza­ta. Terrorizza­ta di uscire dall’ospedale di Ponte a Niccheri. Di ritrovarsi di fronte l’animale. Perché lui, ancora prima dell’assalto, sapeva chi fosse. Come se l’aspettasse.

Durante quell’ora interminab­ile di violenze sotto il ponte di Varlungo l’aveva minacciata. Lei aveva tentato di resistere: «Ti avevo già visto qui ed è la seconda volta che ti vedo qui, quindi stai attenta che ti posso trovare tranquilla­mente anche una terza volta».

La studentess­a, 21 anni, di origine asiatica, aveva già raccontato tutto alla polizia. Prima di arrivare in ospedale. Il primo pugno al volto, la scarica successiva, i calci al fianco, alla pancia, alle spalle. Una volta a terra era stata trascinata per i capelli, giù per le scale della rampa di Varlungo. «Se urli ti ammazzo». Le botte, ancora. Gli abusi. Il sangue. Sulla maglietta, sulla pelle. Il buio. La fuga. Il racconto, lucidissim­o, alla polizia.

In ospedale avrebbe voglia di essere curata e basta. Di non dover raccontare di nuovo tutto. Il medico e l’infermiere capiscono subito che devono attivare il codice rosa. Quello per le donne vittime di violenza. Immaginiam­oci la sequenza: arrivano le ostetriche, medicazion­i, tranquilla­nti, gli esami necessari anche a stabilire se ciò che la ragazza ha raccontato agli inquirenti è vero. Lei non vorrebbe ricomincia­re daccapo. E qui, la prima difficoltà per ostetriche, ginecologh­e, psicologhe presenti in quel momento in ospedale. Ci vuole delicatezz­a. Preparazio­ne, più mentale che medica. La ragazza, per quanto possibile, non deve ripiombare nell’incubo. Pensiamo alla scena: le donne medico fanno del loro meglio. Lei piange, le asciugano le lacrime, ma trattengon­o le loro. Non possono cedere. Un fazzoletto, una carezza. E vedere un accenno di sorriso tra le lacrime dà forza anche a loro.

Non tutte forse hanno una grande esperienza alle spalle

Delicatezz­a

La ragazza arrivata al pronto soccorso non poteva rivivere l’incubo Piangeva, le asciugavan­o le lacrime, ma tratteneva­no le loro

per affrontare un caso del genere. Così violento. Così cruento. Così sconvolgen­te. Si trovano di fronte una ragazzina che potrebbe essere figlia, sorella, amica. Potrebbe essere una di loro. Così hanno scritto, d’altronde, nella petizione-appello rivolta a Palazzo Vecchio.

È passata quasi una settimana da quella notte. Qualcuna di loro non fa altro che piangere. Non riesce a dimenticar­e. Il sentimento di impotenza. La ferocia, la sofferenza

Impotenza Ostetriche, ginecologh­e, psicologhe sono abituate ad affrontare il dolore Ma non sempre si può essere preparati a una tale ferocia

e il terrore negli occhi di lei. Non è sempre la stessa cosa. Sono abituate ad affrontare il dolore delle donne. L’aborto, la morte di un figlio, una gravidanza complicata. Non una violenza così inspiegabi­le. Casuale. Si sentono impotenti anche con le amiche di lei che stanno fuori dalla stanza protetta per «i Codici rosa». Ogni volta che escono o entrano sentono tutti quegli occhi puntati addosso: sbarrati e imploranti di avere notizie della loro amica. Solo sguardi, («Come sta? Come sta?»), niente parole. Alle ostetriche viene il dubbio di essere quasi ingombrant­i. Che forse non è il loro momento. Che forse lei vorrebbe le sue amiche accanto. Che le farebbe bene.

E invece torna un poliziotto. Deve finire il suo lavoro per mettersi sulle tracce della bestia. Le donne medico sentono la ragazza che ricomincia a raccontare. A descrivere con lucidità disarmante il suo aggressore. Continua a ripetere che non vuole uscire dall’ospedale, che ha paura di trovarselo di nuovo di fronte. Di un altro agguato, come le aveva promesso. Racconta di nuovo le botte, gli abusi. È dura restare ad ascoltare. Anche se sei una ostetrica, o una psicologa. Sei prima di tutto una donna, una madre, una sorella, una figlia. Quella ferocia non si può sentire. Quei dettagli cancellano tutto quello che di bello c’è stato prima. Un parto, un bambino venuto alla luce. La gioia che, certo, aveva contagiato anche l’ostetrica che lo ha fatto venire alla luce.

Una donna che partorisce. E subito dopo una donna violentata. Nella maniera più feroce. La routine non esiste. Non può esistere. Non sempre si può essere preparati a tutto.

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L’immobile a Varlungo occupato dove viveva Arnaut Mustafa, il romeno accusato di aver violentato domenica scorsa la ragazza di 21 anni di origine asiatica

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