IL DOLORE DELLE VITTIME E I DOVERI DELLO STATO
aro direttore,
«Ogni crimine ha almeno una vittima e ogni vittima ha diritto ad avere una voce» è la frase che trovai scritta a chiusura di una email della Polizia di Sheffield, in Gran Bretagna, da me contattata. La frase mi colpì. Da vittima di reato, in quanto padre di un figlio ucciso in un omicidio stradale, ero nel bel mezzo di un «percorso» fra polizia, scuola dei figli, lavoro, avvocati, tribunale, medici, assicurazioni e amministrazioni che stavo affrontando con estrema difficoltà.
E in molti casi per me, da vittima era estremamente difficile avere una voce. Notavo in oltre che gran parte delle persone che incontravo nelle istituzioni citate sopra non avevano nessuna formazione in proposito e, qualche volta, nessuna voglia di parlare con me.
Leggendo la storia della ragazza violentata recentemente a Varlungo non posso non continuare a pensare a questo tema del percorso delle vittime di reato. È semplice e umano per tutti immedesimarsi nel dolore di chi ha subito una violenza o al quale è stato ucciso un figlio. È difficile invece capire a quante difficoltà andranno incontro queste vittime successivamente nel loro percorso. Per questo ho provato a descrivere nel dettaglio questa esperienza nel mio ultimo libro Il torto di essere vittime. Per fare capire quanto sia importante per la società che questo percorso sia reso il più possibile semplice e rispettoso per le vittime, per far capire quanto di buono è stato fatto per le vittime di reato e quanto invece c’è ancora da fare.
Ci sono degli ottimi esempi di cose fatte. Come citato in un vostro articolo, il progetto Codice rosa, che serve a identificare dei percorsi diversi per le vittime di violenza nei pronti soccorsi, è senza dubbio un bellissimo esempio. Come lo sono il progetto Ania Cares che offre un pronto soccorso psicologico ai familiari delle vittime di reati stradali attivo in quattro città italiane e il progetto Chirone della Polizia di Stato che ha definito le linee guida per gli operatori per trattare con le vittime e i loro familiari. E ce ne saranno sicuramente molti altri che magari non conosco.
Ma tanto rimane ancora da fare soprattutto nel campo della giustizia. Il nostro codice di procedura penale non è costruito per le vittime. La parola giudice compare 1033 volte, imputato 428 e vittima una sola volta. Quando le vittime affrontano i processi quasi non esistono. Quando il criminale (inteso come persona che ha commesso un crimine) verrà rinviato a giudizio non verrà notificato alla vittima. La vittima, se non si costituisce parte civile, non potrà partecipare al processo e in nessun modo fare sentire la propria voce. Probabilmente la vittima durante il suo percorso da testimone e nelle indagini dovrà raccontare la sua storia dolorosa più volte a diversi interlocutori. Se ci sarà o non ci sarà una condanna del presunto reo questo non viene notificata alla vittima. Se la vittima chiederà di parlare con il procuratore per capire come vanno le indagini sul suo caso, il procuratore può tranquillamente rifiutarsi di parlarle. Quando il violentatore, a fine pena o per scadenza dei termini, sarà rimesso in libertà questo non verrà notificato alla vittima. Il violentatore, alla fine della pena, avrà diritto ad essere seguito da un assistente sociale per il reinserimento; la ragazza violentata o la mamma del figlio ucciso no. Nessun operatore di giustizia (avvocato, procuratore, giudice, cancelliere) ha avuto una formazione di base su come trattare, cosa dire o non dire, a una donna violentata o a una mamma alla quale hanno ucciso un figlio. E molto altro.
Non credo nelle categorie. Esistono avvocati, giudici e procuratori che hanno già una sensibilità elevata e trattano le vittime con grande rispetto come è accaduto recentemente alla mamma di un giovane ucciso per omicidio stradale nel Tribunale di Firenze. Ma non possiamo lasciare tutto questo alla sensibilità del singolo.
Dobbiamo provare a istituzionalizzarlo nel sistema giustizia. Siamo anche fortunati. Il come ce lo dice la direttiva europea 29/2012 che stabilisce lo standard minimo dei diritti, del supporto e della protezione delle vittime di reato e abbiamo esempi della sua applicazione in molti stati. Non dobbiamo pensare solamente a come reintegrare nella società il reo. Anche la vittima ha e avrà i suoi problemi nel tornare ad una vita «normale» dopo un crimine subito. E uno Stato civile ha il dovere di fornire aiuto anche e soprattutto a lei.