La bancarotta della parola
Nella lettera dei vescovi toscani a cinquant’anni dalla morte di don Milani una riflessione sul linguaggio e sulla sua perdita di senso. Domani l’incontro con Affinati
«La forza della parola» è il titolo della Lettera pastorale dei Vescovi della Toscana, scritta a 50 anni dalla morte di don Lorenzo Milani e a un anno dalla visita di papa Francesco a Barbiana. Della lettera, di cui pubblichiamo un estratto, si parla domani alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, in un incontro aperto dal cardinale Giuseppe Betori e da mons. Basilio Petrà e moderato da Paolo Ermini a cui partecipa Eraldo Affinati
Volendo ruotare intorno alla centralità della parola, riletta nelle sue dimensioni costruttive e distruttive, il percorso della lettera si snoda lungo una serie di approfondimenti sulla parola. A partire dall’ambivalenza tra parole vuote e parole piene di senso e di spessore e prendendo in esame il rischio di voler leggere l’esperienza della vita umana con una logica binaria che semplifica fino a banalizzare, la riflessione intende poi fermarsi sulla testimonianza di vita e sull’insegnamento di don Lorenzo Milani, e in particolare sulla sua decisa consapevolezza che «solo la lingua fa eguali» e che occorre restituirla al più presto ai poveri. Seguono alcuni approfondimenti sul linguaggio banale, ingannevole e violento, assai diffuso proprio nel nostro tempo, così come su quel fenomeno sempre più imponente di una «parola che distrae», deriva della quale si diceva preoccupato già lo stesso don Milani in Esperienze pastorali.
Un’altra dimensione della parola cui la nostra lettera dedica attenzione è quella della sua irrinunciabile valenza formativa, intendendo offrire un contributo di riflessione nell’ambito del decennio dedicato dalle Chiese italiane alla sfida di educare alla vita buona del vangelo in un mondo che cambia. Non può, infatti, darsi vera umanizzazione — la cui diffusa mancanza costituisce una delle emergenze più preoccupanti del nostro tempo — senza l’esercizio buono della parola che sa nominare i fatti e le cose della vita, valutarli, giudicarli, suggerirne l’esemplarità oppure denunciarli quando risultino nocivi o falsi. L’ambito dell’informazione e la valenza comunicativa della parola ha anche una vasta e complessa eco particolarmente nella nostra regione dove alla comunità ecclesiale fanno capo numerosi strumenti della comunicazione nel mondo del web e dei social, della radio-televisione, della carta stampata, del cinema e del teatro, ricordando che l’esperienza del teatro sacro di S. Miniato è la più antica e tuttora vivacemente seguita del suo genere in Italia.
La lettera, infine, si conclude con degli approfondimenti sul potere che la parola ha di incantare, accarezzare e guarire, ma soprattutto sulla «forza dell’annuncio» che non può essere separata dalla coerenza della vita, pena la sua assoluta inconsistenza.
Di fatto, come notava il beato cardinale John Henry Newman in uno dei suoi sermoni anglicani, «non è una cosa facile da imparare quella nuova lingua che Cristo ci ha portato. Egli ha interpretato per noi tutte le cose in un modo nuovo. Egli ci ha donato una fede che getta nuova luce su tutto quello che accade. Sforzati di apprendere questa lingua».
Le infinite possibilità di connessione offerte dai nuovi strumenti non stanno producendo un’effettiva crescita della comunicazione né, tanto meno, un incremento della sua qualità. La rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato i decenni a cavallo dell’inizio del nuovo millennio ha messo, in effetti, a nostra disposizione una vastissima quantità di nuovi mezzi di comunicazione e di neologismi d’ogni genere. In particolare, il diffondersi e l’uso sempre più massiccio della rete, collegato con l’espansione dei social media, ha profondamente modificato le nostre abitudini comunicative.
Una vera e propria nuova «galassia elettronica» che va sempre più sostituendosi alla «galassia Gutenberg», come l’ha definita Marshall McLuhan. Di fatto, nel nostro contesto ipermediatizzato, parole e immagini hanno fatto quasi bancarotta. Sempre più rare sono le «parole parlanti» che esprimono, cioè, un pensiero che le sostiene e le motiva, sostituite ormai quasi del tutto da «parole parlate», ripetitive, vuote e, proprio per questo, assordanti. Il nostro è, il più delle volte, un parlare rutiniero e burocratico, distratto e inefficace: «nel traffico dei nostri discorsi quotidiani — scriveva il compianto Massimo Baldini — ci imbattiamo troppo frequentemente in parole senza peso, inoperanti, inessenziali, in una lingua kitsch che smussa il pensiero provocando una inarrestabile narcosi intellettuale. Negli slogans, nei clichés, nelle metafore morte, nei prefabbricati linguistici le parole incespicano, scivolano, si guastano, marciscono». Lo affermava con grande efficacia già Italo Calvino nel 1984, nelle sue Lezioni americane, quando giustificava la sua preoccupazione di difendere valori solo all’apparenza ovvi come, appunto, la preziosità della parola e della lingua: «mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile». E aggiungeva, riferendosi proprio a quella bancarotta cui abbiamo accennato: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze »...
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Le infinite possibilità di connessione offerte dai nuovi strumenti non stanno producendo una effettiva crescita della comunicazione