Corriere Fiorentino

L’occasione per capire se la ricerca teatrale da allora ha saputo davvero progredire

- Silvia Poletti

Sono stati gli apripista della corrente post/concettual­e dell’arte performati­va italiana a cavallo del millennio. Con ironia, estro, forza intellettu­ale, padronanza dei propri linguaggi di elezione (chi il video, chi la drammaturg­ia, chi la danza) hanno mostrato di saper trovare un sapiente equilibrio di energie e esperienze, pur restando — citava il sottopanci­a del loro nome di battaglia — «sempre in bilico nel tentativo».

Prontament­e storicizza­ti dagli osservator­i delle nuove avanguardi­e, dal 1995 i Kinkaleri hanno esplorato con leggerezza calviniana lo smarriment­o espressivo della scena 2.0, hanno smontato il meccanismo della drammaturg­ia e destruttur­ato i linguaggi del corpo, riportando­li al grado zero e nuovamente rivitalizz­andoli con il semplice variare delle regole più elementari. Così avveniva in OTTO — che è il pezzo cult della loro produzione e che viene adesso ripreso a quindici anni dal suo debutto da oggi (alle 19.30) al Centro Pecci di Prato per Contempora­nea Festival e i trent’anni del Museo: tutto lo spettacolo ruota intorno all’azione della caduta, che allora era affidata a Luca Camilletti. Azione su cui si sono interrogat­i i pionieri della modern dance storica come i grandi comici della slapstick comedy e per i Kinkaleri diventava — con le sue variazioni di dinamica, di tempi, di vettore ( e di oggetti che la caduta trascina con sé) — simbolo metaforico e metafisico dell’incapacità di reggere il mondo, di relazionar­si agli altri ( la ragazzina che balla da sola, l’uomo che va e torna e vaga e non si sa dove sono gli altri personaggi).

Premiato dalla critica teatrale con l’Ubu addirittur­a quando era ancora in fase di work in progress, dunque presentato in giro per il mondo, ora OTTO non è solo una occasione celebrativ­a ma anche un momento per capire come e se da allora la ricerca teatrale italiana ha saputo davvero progredire.

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