L’occasione per capire se la ricerca teatrale da allora ha saputo davvero progredire
Sono stati gli apripista della corrente post/concettuale dell’arte performativa italiana a cavallo del millennio. Con ironia, estro, forza intellettuale, padronanza dei propri linguaggi di elezione (chi il video, chi la drammaturgia, chi la danza) hanno mostrato di saper trovare un sapiente equilibrio di energie e esperienze, pur restando — citava il sottopancia del loro nome di battaglia — «sempre in bilico nel tentativo».
Prontamente storicizzati dagli osservatori delle nuove avanguardie, dal 1995 i Kinkaleri hanno esplorato con leggerezza calviniana lo smarrimento espressivo della scena 2.0, hanno smontato il meccanismo della drammaturgia e destrutturato i linguaggi del corpo, riportandoli al grado zero e nuovamente rivitalizzandoli con il semplice variare delle regole più elementari. Così avveniva in OTTO — che è il pezzo cult della loro produzione e che viene adesso ripreso a quindici anni dal suo debutto da oggi (alle 19.30) al Centro Pecci di Prato per Contemporanea Festival e i trent’anni del Museo: tutto lo spettacolo ruota intorno all’azione della caduta, che allora era affidata a Luca Camilletti. Azione su cui si sono interrogati i pionieri della modern dance storica come i grandi comici della slapstick comedy e per i Kinkaleri diventava — con le sue variazioni di dinamica, di tempi, di vettore ( e di oggetti che la caduta trascina con sé) — simbolo metaforico e metafisico dell’incapacità di reggere il mondo, di relazionarsi agli altri ( la ragazzina che balla da sola, l’uomo che va e torna e vaga e non si sa dove sono gli altri personaggi).
Premiato dalla critica teatrale con l’Ubu addirittura quando era ancora in fase di work in progress, dunque presentato in giro per il mondo, ora OTTO non è solo una occasione celebrativa ma anche un momento per capire come e se da allora la ricerca teatrale italiana ha saputo davvero progredire.
Ieri e oggi