Cazzullo e il Paese da ricostruire Come 70 anni fa
Aldo Cazzullo presenta alla Feltrinelli Red il suo libro sull’Italia della Ricostruzione «Ieri c’erano energia e fiducia, oggi vedo un Paese provinciale dove l’ignoranza è diventata virtù»
«Credo nello spirito del tempo» dice Aldo Cazzullo. E non è certo un pensiero felice visto che il tempo — sostiene l’editorialista del Corriere della Sera — lo ha affossato e depresso non di poco, il nostro spirito. Il Paese che usciva dalla seconda guerra mondiale era «distrutto e umiliato» ma aveva dentro «la forza per ripartire». Gli italiani erano «più sani e più forti». Era lo spirito di quel tempo. Il Paese che invece sta uscendo o tenta di uscire dalla grande crisi del nuovo millennio, dona meno speranze: «Dieci anni di crisi hanno lasciato sul campo meno vittime ma più scoramento e rassegnazione di cinque anni di guerra». Ecco: lo spirito di questo tempo, pensa Cazzullo, ha qualcosa di rotto.
Si potrebbe sintetizzare così l’idea di fondo che traccia la rotta del suo ultimo libro Giuro che non avrò più fame (Mondadori), che oggi alle 18.30 presenta alla Feltrinelli Red insieme al direttore del Corriere Fiorentino Paolo Ermini, al sindaco Dario Nardella e a Lapo Pistelli, ex deputato e ora direttore delle relazioni internazionali di Eni: una narrazione che «dickensianamente» si snoda lungo tre «natali», lo spirito del Natale passato, quello del 1948, lo spirito del Natale presente, 70 anni dopo. Per gettare lo sguardo a quello che potrà essere nel futuro.
Partiamo dal confronto tra dopoguerra e dopo-crisi, ammesso che si sia vivendo un «dopo» crisi. Perché proprio questo paragone?
«Perché anche oggi abbiamo un Paese da ricostruire, come 70 anni fa. Ma non vedo la stessa energia e la stessa fiducia: quella era un’Italia che faceva molti figli, questa tutto l’opposto, chiaro indicatore di mancanza di fiducia».
Quali sono le principali differenze che scorge tra i due periodi?
«La mancanza, oggi, di una classe dirigente all’altezza. Dopo 20 anni di voce tronfia del Duce, l’Italia parlava con la voce ferma e autorevole di De Gasperi. Oggi sembra che la selezione premi i mediocri. Ripenso a quel celebre episodio del 1952 in cui Dossetti andò da La Pira, che era sindaco di Firenze da un anno e uno degli uomini più potenti d’Italia, ma continuava ad abitare in un’austera cella del convento di San Marco. Gli disse che avrebbe lasciato la politica per farsi prete. La Pira, stupito, chiede perché. E lui risponde “perché che i comunisti vinceranno la guerra fredda”. De Gasperi lo fulmina con lo sguardo: “Non succederà, sono dei senza Dio”. Ecco, quella è un’Italia scomparsa. Gli è succeduto un Paese provinciale dove l’ignoranza è diventata una virtù. Non so se gli italiani di 70 anni fa fossero migliori di noi, forse erano individualisti come noi, però era un individualismo che evolveva nel vitalismo e nella voglia di riscatto. L’individualismo di oggi degenera nel narcisismo, che per sua natura è sterile».
Ha usato la metafora di «Canto di Natale» di Dickens per la scansione temporale del racconto. È solo un esercizio funzionale alla tripartizione oppure, essendo quella una storia di redenzione…
«Serviva per la scansione temporale: inizio il libro parlando dei i regali che si facevano ai bambini nel Natale del ‘48, i fucili col tappo per esempio. Era un Natale alla Dino Buzzati, freddo e povero. Quelli di oggi sono angosciati e consumisti. Però sì, la metafora della redenzione c’è. Perché se guardo l’Italia che sarà non sono certo ottimista ma fiducioso, un po’, sì».
L’individualismo evolveva nel vitalismo e nella voglia di riscatto Adesso degenera nel narcisismo
Un ruolo chiave nel libro ce l’hanno lo sport e lo spettacolo: emblematico il rapporto tra i «campioni poveri» del ‘48 e la mancanza di romanticismo nello sport-business di oggi. Come tra la voglia di ridere dell’Italia di Totò, Sordi e Rascel, e quella di oggi.
«Il ciclismo è un simbolo: gli italiani erano un popolo di ciclisti e un anno dopo la morte di Coppi si assiste già a un crollo di vendite delle bici del 50%: era arrivata la lambretta. Coppi e Bartali incarnano il romanzo popolare degli italiani, sono i nostri Balzac e Zola. Lo sport evolve, la società cambia, ma un po’ di nostalgia...»
Ripercorre anche il giallo della telefonata di De Gasperi che avrebbe chiesto a Bartali di vincere il Tour per scongiurare la rivolta comunista.
«Non sapremo mai se quella telefonata sia mai esistita. L’ho chiesto anche alla figlia di De Gasperi e nemmeno lei lo sa. Ma fa parte del nostro romanzo popolare, appunto».
Sarà pure fiducioso nel futuro, ma è anche nostalgico.
«Non voglio dare un’immagine edulcorata di quell’Italia: era un Paese duro, ingiusto, violento, maschilista. Ma vorrei ritrovare la stessa fiducia». Attraverso la politica? «Non penso che sarà la politica a salvare l’Italia. La parabola di Renzi, consumata con una rapidità che nessuno poteva immaginare, fa pensare che potrebbe consumarsi, anche se non altrettanto rapidamente, pure quella di Cinquestelle e Salvini. La soluzione non verrà da lì anche se dovessimo avere in futuro dei governi migliori. Ciò che è importante siamo noi, l’energia e il genio degli italiani. L’Italia che è nata con Dante e Giotto, che è nata a Firenze e non a Roma, con la cultura e non con la politica. Non dobbiamo aspettare di intascare il reddito di cittadinanza per rinascere».