Storia di un’utopia smarrita
Silvia Fardella e gli otto anni trascorsi nella prima comune d’Italia in Sicilia, a Terrasini Martedì se ne parla all’Ora Blu di Firenze: «Volevamo cambiare il mondo rivoluzionando noi stessi»
L’utopia realizzata per lei è durata otto anni. Erano altri tempi e Silvia Fardella, una ragazza nel ‘68, fu la prima donna in Italia a vivere in una comune. Meglio, a crearla questa comune. Romana di nascita, siciliana di origine, fece il salto che la portò a sperimentare la «condivisione eletta a sistema» a Terrasini, buen retiro dorato per la borghesia in provincia di Palermo, qualche anno più tardi. Allora, quando Silvia arrivò, era un paese di mare bellissimo. Dopo sarebbe diventato luogo della speculazione edilizia, di una costa svenduta al mattone. Ma questa è un’altra storia. Allora, nel 1970, lei e il suo compagno, Carlo — e col trascorrere del tempo altre decine di ragazzi coi capelli lunghi e uno stile che è quello degli hippies — presero in affitto una villa che oggi fa parte dei luoghi del Cuore del Fai, Villa Fassini, e ne fecero il luogo dell’amore libero. Non a caso il loro unico figlio si chiama Amore.
Di questa storia che ha fatto Storia — su di lei e la sua comune Salvo Cuccia ha fatto un film (Hippie Sicily) e si è parlato in tv e in svariate pubblicazioni — martedì alle 18 Silvia Fardella parlerà alla libreria L’Ora Blu, in viale dei Mille 27 R a Firenze, durante il ciclo di incontri organizzati da Raffaella Ganci a latere del Festival l’Eredità delle donne dedicati alle Donne fuori catalogo e finalizzati a mettere in connessione street artist che lavorano sulla reinterpretazione del mito a donne del ‘900. Un volo pindarico che in questo caso è molto poetico visto che l’ex ribelle Fardella è associata alla figura della coraggiosa Atalanta. «Ho accettato di venire a raccontare la nostra storia a Firenze — ci anticipa Silvia — perché mi sembra ci sia particolare bisogno di racconrouac quei tentativi di ribellione al sistema proprio oggi quando, almeno quanto a rapporti umani e sociali, si rischia di implodere. L’esperienza della comune hippy è per molti un fatto di mero folklore ma la storia di quei capelloni è quella di qualcuno che ha provato a praticare la condivisione, il rispetto, la rivoluzione dell’individuo come punto di slancio e partenza per rivoluzionare il mondo».
In quella casa passarono decine di persone — c’erano Paola Pitagora, Eugenio Finardi, Mauro Rostagno e i ragazzi di Radio Aut di Peppino Impastato, Guido Daniele. Passavano, andavano via, ritornavano. «Come facevamo anche io e Carlo — aggiunge Silvia — che in quegli anni lavoravamo anche con il gruppo del Living Theatre — non c’era nessun vincolo e non c’era nessuna regola. Erano solo bandite le droghe, altrimenti ci avrebbe fatto andare via dopo un giorno. Per il resto coltivavamo l’utopia anarchica e libertaria dei ragazzi di quel tempo». La sua storia, la prima in Italia, di questo genere, nasce dalla frequentazione di un libro cult della Beat Generation, quell’On the road di Jack Ketare che ha segnato una generazione. «Lo lessi perché me lo aveva regalato Carlo e dopo, io e lui, mettemmo in pratica quello stile di vita. In giro per il mondo, dal nord Europa all’America fino all’India — ma solo più tardi e con molte mie resistenze — per cambiare i rapporti tra se stessi e gli altri, sostituire la collaborazione alla competizione, la tolleranza all’aggressività, per non inneggiare all’amore ma per praticarlo, per non parlare di rivoluzione sociale prima di aver fatto la propria rivoluzione personale, per tentare il socialismo sulla propria pelle». La pratica quotidiana della comune era improntata all’amore libero solo per le coppie non monogamiche. Insomma era questione di scelta. Per il resto chi lavorava portava i soldi a casa. Chi non aveva uno stipendio, cucinava, si occupava dei bambini — tutti quanti contribuivano a crescere i 15 bambini cresciuti in questa villa ottocentesca a strapiombo sul mare — di fare la spesa e tenere a posto la comune. «Arrivammo in Sicilia quando il movimento in Italia era appena partito, e fummo accolti benissimo, la gente del luogo, i contadini e soprattutto le persone più semplici, ci avevano quasi adottato. Io ero tra le poche a lavorare. Insegnavo alle scuole elementari, cosa che ho continuato a fare fino a quando sono andata in pensione». Ora Silvia ha 69 anni e la voglia di raccontare questa esperienza non l’ha mai lasciata. «Ci abbiamo creduto — conclude — ci siamo divertiti certo, ma abbiamo anche investito su una modalità di vita che oggi pare pure utopia, eravamo liberi e credevamo nella forza della parola e della condivisione. Ed è questo che voglio raccontare a Firenze, dove spero di incontrare dei giovani».
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Ideali Volevamo sostituire la collaborazione alla competizione, la tolleranza all’aggressività