Corriere Fiorentino

Io, quei sette anni con Montanelli e l’ispettore Derrick

Dai racconti di Vittorio Feltri nel suo ultimo libro agli aneddoti di chi ci lavorò per sette anni Ritratto del grande giornalist­a visto da vicino. Un aristocrat­ico alla mano, che metteva tutti a proprio agio

- di Paolo Armaroli paoloarmar­oli@alice.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

S’intitola Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato il nuovo libro di Vittorio Feltri, edito da Mondadori. Un intero capitolo è dedicato a Indro Montanelli. E non a caso, perché le loro vite si sono incrociate più volte. A un certo punto della sua carriera Feltri è stato lì lì per entrare come inviato al Giornale. «Questo mi piace! Lo prendo», disse Montanelli. Ma poi la cosa sfuma perché Gabriele Canè, che era corrispond­ente da Parigi, a causa di un litigio familiare abbandona la postazione francese, torna a Milano e assume il ruolo che sarebbe dovuto spettare a Feltri. Molto più tardi al Giornale si verifica il cambio della guardia. Se ne va Montanelli, per nessuna ragione al mondo disponibil­e a fare da megafono alle avventure politiche di Berlusconi, e subentra Feltri. Ma fino ad allora Montanelli aveva sempre sostenuto che Berlusconi era il miglior editore possibile. Una volta mi disse: «Tutt’al più mi chiede di pubblicare sul giornale la foto di un’attricetta o di una stellina televisiva. E io l’accontento». Il Cavaliere, si sa, non è di legno. La verità, come sostiene a ragione Feltri, è che «Indro era convinto che Berlusconi fosse il proprietar­io del suo giornale e lui il padrone assoluto».

Infine, dopo la sfortunata avventura della Voce, Montanelli, che ha fatto sempre da chioccia alla sua ciurma, si rivolge a Feltri perché riprenda i giornalist­i – a cominciare da Mario Cervi – che lo avevano seguito nella sfortunata impresa editoriale. Mentre io, chiamato da Giulio Anselmi, andai al Corriere della Sera e poi al Messaggero.

Del resto, la «chioccia» ha sempre tutelato i suoi giornalist­i. Quando qualche alto papavero della politica gli chiedeva la testa di Giancarlo Perna per i suoi micidiali ritratti, Montanelli replicava: «È vero, Perna è un matto, un matto da legare. Ma è così bravo che mi conviene tenermelo stretto accanto a me».

Il titolo del libro, «Il borghese» per l’appunto, è un po’ un fil rouge che lega Feltri a Montanelli. Se c’è stato per decenni un sagace interprete della borghesia, questi è stato Indro. Ma si trattò di un equivoco. Per l’illustre figlio della natia Fucecchio la sua borghesia era una borghesia immaginari­a. Si spiega allora perché la borghesia in carne ed ossa lo abbia di continuo deluso. Soprattutt­o negli ultimi tempi. Mentre la borghesia di Feltri è quella che lui ha avuto sempre sott’occhio. Ora l’ha vezzeggiat­a, ora l’ha bastonata a modo suo, ora c’è andato a nozze e a letto. Ecco che si spiegano i suoi successi

❞ Mangiava come un uccellino, bastavano una forchettat­a di spaghetti, due fagioli al fiasco e un sorso di Chianti Poteva essere paragonato a Luigi Einaudi...

editoriali. Al Giornale, dopo che Montanelli sbatte l’uscio andandosen­e, Feltri riesce ad aumentare di molto il numero di copie in poco tempo. Ma non era più il Giornale di Montanelli, insuperabi­le modello di eleganza. Il Geniale, secondo quella malalingua di Fortebracc­io. Era un’altra cosa. Senza dubbio efficace. Ma tutt’altra cosa. «È come avere un figlio drogato», dichiarò gelido e ironico il fondatore.

Molti altri furono i contatti tra i due. Feltri ricorda un’intervista che gli riuscì proprio bene. Del resto Montanelli, da quel gran signore che era, metteva tutti a proprio agio. Un aristocrat­ico alla mano, come sapevano esserlo una volta in Toscana. E poi non pochi furono gl’incontri a desinare in trattorie immancabil­mente toscane. Montanelli mangiava come un uccellino. Niente a che vedere con un mezzo toscano come il pantagruel­ico Enrico Mattei, storico direttore de La Nazione ai tempi in cui Giovanni Spadolini dirigeva Il Resto del Carlino. E, con il sorriso sulle labbra, tra i due giù botte da orbi. No, Montanelli poteva essere paragonato a Luigi Einaudi, che al Quirinale invitò un commensale a dividere con lui una pera. E da allora, a detta di Ennio Flaiano, avemmo unicamente pere indivise. A Montanelli bastavano una forchettat­a di spaghetti, due fagioli al fiasco e un sorso di vino rosso. Chianti, si capisce.

E ora vi racconto il mio Montanelli, che per sette anni mi ha voluto nella sua squadra. Prima al Giornale e poi a La Voce. Del resto, lo avrei seguito anche all’inferno. Come direttore, era senz’altro sui generis. Si limitava all’essenziale. Al mattino scriveva a macchina il suo articolo di fondo, immancabil­mente lungo una colonna e un piedino. Non di più. A differenza di Eugenio Scalfari, uomo dalle omelie chilometri­che che non ha mai messo a frutto il monito di Mario Missiroli: «Un articolo di fondo non deve contenere più di un’idea. E se non c’è, è meglio». Indro scriveva con la porta del suo studio sempre aperta, recitava le sue parole ad alta voce per accertarsi che suonassero bene. Curava meticolosa­mente i suoi Controcorr­ente. Sovente metteva i titoli agli articoli di fondo altrui, giocando sulle parole. Uno mio su Francesco D’Onofrio, un professore dc che spaccava il capello in quattro, lo titolò «A cavallo di un cavillo». Curava di persona la Terza pagina, come si chiamava allora. Mentre tutta la macchina era sulle spalle di Gian Galeazzo Biazzi Vergani, un fenomeno dai nervi d’acciaio che aveva bisogno di due nomi e di due cognomi per tirare avanti alla grande. Vittima dei tic del direttore megagalatt­ico. Che nel tardo pomeriggio, dopo una tazza di tè, vedeva in tv l’ispettore Derrick e non voleva essere disturbato per nessuna ragione al mondo. Fosse pure la morte del Papa.

Un bel giorno mi convoca a colazione a Milano. A tavola siamo quattro gatti. Montanelli ci dice: «Ora che Franco Cangini se n’è andato, ci tocca smembrarlo». Smembrarlo, proprio così. «Allora tu, Paolo Armaroli, continuera­i a occuparti di politica costituzio­nale. Tu, Federico Orlando, di politica istituzion­ale». Vai a capire la differenza. «E tu, Salvatore Scarpino, di politica interna». Lui e Cangini avevano litigato di brutto. E a Cangini, condiretto­re per pochissimo tempo, si attagliano le parole di Mussolini vergate su un cartello posto in bella vista ai tempi in cui era da poco uno squattrina­to direttore del Popolo d’Italia: «I signori redattori sono invitati a non andarsene prima di essere venuti». Pagava due lire i suoi giornalist­i, costretti perciò a un doppio lavoro.

Ma la stima per Cangini non era venuta meno. Tant’è che il direttore pensò bene di sostituirl­o non con una ma con tre persone. Un altro giorno ci informa che si ricovererà nella clinica pisana del professor Cassano. E la cosa lo inquieta. Perché, nevrotico com’era, temeva che senza di lui il giornale andasse peggio. Ma temeva ancora di più che senza di lui andasse meglio. Ci dice: «Per i Controcorr­ente dovrete sbrigarvel­a voi». Tra i più gettonati di quel periodo ci fu questo: «Non si capisce perché Achille Occhetto avverta il prepotente bisogno di contrastar­e con un governo ombra un’ombra di governo». L’ombra di governo, manco a dirlo, era l’ennesimo ministero Andreotti. Il bello è che nell’aula di Montecitor­io il liberale Alfredo Biondi lo recitò a maggior gloria di Montanelli. Lo dico sottovoce per non arrossire: il pezzullo era mio. Ma il miglior imitatore dello stile montanelli­ano è stato Paolo Granzotto. Era talmente bravo che alcune introduzio­ni di libri a firma di Montanelli sono farina del suo sacco. Dei falsi talmente ben riusciti che sembravano più autentici delle introduzio­ni scritte dal mio indimentic­abile direttore.

❞ Al mattino scriveva a macchina il suo articolo di fondo lungo una colonna e un piedino, non di più Nel tardo pomeriggio vedeva in tv l’ispettore Derrick e guai a disturbarl­o

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La copertina dell’ultimo libro di Vittorio Feltri, «Il borghese» (Mondadori)

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