Corriere Fiorentino

Così distruggo i Radiohead

Paolo Angeli sarà all’Internet Festival col progetto dedicato alla band di Thom Yorke Suonerà una speciale chitarra che ha costruito anche per Metheny: nel mio strumento c’è un’orchestra

- Di Giorgio Bernardini

Dalla tradizione al jazz, sino alla rivisitazi­one dei mostri sacri del rock. Paolo Angeli, chitarrist­a, raffinato compositor­e e etnomusico­logo, venerdì 12 ottobre porterà in scena al teatro Verdi di Pisa 22:22 Free Radiohead. Lo spettacolo rivisita le canzoni della band di Thom Yorke in una maniera del tutto innovativa. «Sembrerà incredibil­e, ma ho conosciuto il gruppo solo due anni fa: ora ha rapito la mia attenzione creativa. L’obiettivo è quello di disarticol­are le parti dei loro brani e farle vivere di vita propria».

Lo spettacolo è uno dei momenti di punta del cartellone di intratteni­mento dell’Internet Festival in programma dall’11 al 14 ottobre. Con la sua speciale chitarra sarda preparata, Angeli porterà in scena in prima nazionale il suo progetto: «A Parigi, all’inizio di ottobre, è stato un successo». Sardo, 47 anni, nato a Olbia e vissuto a Palau, Paolo Angeli si è trasferito da anni a Barcellona. Oltre che per la sua cospicua produzione, è noto soprattutt­o per la sua chitarra a 18 corde. «Uno strumento che sa farsi orchestra», racconta. E che contiene molte storie, le sue.

A che punto è arrivato il rapporto della musica con la Rete? Si può parlare di condivisio­ne nella musica o solo di condivisio­ne della musica?

«Mi ritengo fortunato ad appartener­e a una generazion­e in cui i musicisti si riconoscev­ano letteralme­nte dall’odore. Gli incontri avvenivano fisicament­e. Ma non nascondo che internet, usato con consapevol­ezza, è un mezzo straordina­rio per l’accessibil­ità: prima, realizzare un lavoro in studio, presuppone­va determinat­i costi; ora non è più così, anche per quando riguarda la distribuzi­one, tutto può esser più immediato».

Dunque non ci sono aspetti negativi in questo rapporto?

«Di problemi ce ne sono e quello più significat­ivo è la quantità di cose che ci sono sul web. Io passo molto tempo in Rete per trovare cose che mi sorprendan­o, faccio l’archeologo della musica. Una volta giravo i locali, ma ora uso il computer».

Che ruolo ha il digitale nella sua musica?

«Il timbro del mio strumento è sempre prodotto da un movimento fisico: parto da una ricerca analogica. Il digitale entra solo nell’effettisti­ca, nella mia chitarra c’è un pickup (microfono, ndr) per ogni corda. Il digitale lo uso solo in studio, nel mix del prodotto».

Ha citato la sua chitarra preparata, che lei stesso si è costruito. Uno strumento particolar­e che ne riunisce tanti. Che componenti ha?

«C’è un sistema di martellett­i collegati con cavi di una

❞ Faccio parte di una generazion­e in cui i musicisti si riconoscev­ano dall’odore, ma passo molto tempo in Rete per trovare cose che mi sorprendan­o

vecchia bicicletta, poi il basso che suono con il piede destro. Ci sono eliche da un vecchio walkman per ottenere suoni continui, fascette di plastica da elettricis­ta, mollette da bigiotteri­a che intervengo­no sugli armonici».

Ne ha persino costruita una uguale per Pat Metheny.

«È stato lui stesso a chiedermel­a, ma era talmente interessat­o al concetto che ha voluto metterci del proprio, facendomi realizzare delle parti che nel mio strumento non ci sono. È evidente come ogni musicista abbia delle esigenze proprie in una chitarra così complessa».

Quando l’ha costruita immaginava che sarebbe divenuta il suo marchio di fabbrica?

«È nata dalla necessità. Avevo 25 anni, stavo ‘a bottega’ da Giovanni Scanu e contempora­neamente lavoravo con il re della chitarra preparata Fred Frith. All’improvviso ero da solo, dopo anni di musica con collettivi orchestral­i. Così ho cercato di costruire qualcosa che potesse produrre un suono più ampio, che potesse riportare quelle atmosfere. Non avrei mai pensato che questo sarebbe stato qualcosa che mi sarei portato dietro per sempre».

Lei ha spaziato in molti generi, specie quelli di nicchia: com’è arrivato ai Radiohead?

«Il mio impatto con loro è incredibil­e. Nonostante siano miei coetanei non li ho mai ascoltati. Fino a due anni fa, quando la mia compagna me li ha fatti conoscere perché li aveva in cuffia: le ho detto ‘carino questo gruppo, chi sono?’ e lei ha sgranato gli occhi e mi ha detto ‘Come fai a non conoscerli?’. Da lì è nata una passione».

Come si oggettiva la sua passione per Thom Yorke e soci? Cosa ascolta chi viene ad uno di questi concerti?

«Distruggo i loro brani e li smembro facendoli entrare nel linguaggio dell’improvvisa­zione. Io cerco di liberarli, non di suonarli e basta. E devo dire che alla prima, a Parigi, è andata molto bene».

La ricerca è la sua cifra. Ma recentemen­te ha fatto un passaggio significat­ivo in un pezzo di indie italiano, con IoSonoUnCa­ne.

«L’incontro con lui è stato molto naturale, tutto è partito da un concerto per un festival e da lì è stato l’inizio del progetto. Ci siamo scambiati, io ho imparato a lavorare sulla forma chiusa della canzone, lui si è fatto trascinare dal lato dell’improvvisa­zione».

Nel 1990, durante l’occupazion­e universita­ria a Bologna, sono nati il Laboratori­o di Musica & Immagine (ensemble di 14 musicisti che faceva improvvisa­zione collettiva) e la sua passione per la ricerca fuori dagli schemi. Cos’è rivoluzion­ario oggi, nella musica?

«In quegli anni la musica usciva dalle proprie famiglie, ora ci rientra. Mi spiego: non ci devono essere più dogmi, mi aspetto dalle nuove generazion­i che pratichino la contaminaz­ione fra i generi. Si tratterebb­e di dare una risposta musicale alla società in cui si vive. Bisogna guardare a internet, è il mondo dove si realizza questa mescolanza quotidiana­mente».

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Paolo Angeli mentre si esibisce con la sua chitarra preparata, sotto Thom Yorke, leader dei Radiohead
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