Corriere Fiorentino

Dal barroccio alla pista, la leggenda di Agrione

Figlio del fuoriclass­e Agrio, passò dal barroccio alla pista delle Mulina. E qui vinse una gara entrata nella storia

- Di Sandro Picchi

Buttate un nome a caso fra gli appassiona­ti di ippica, il nome di un cavallo qualunque di tanti anni fa e avrete successo. Nella memoria si agiteranno i ricordi delle vecchie corse di metà pomeriggio, nei grigi inverni delle Mulina, e allora comincerà la sfida sulla lunga distanza dei ricordi.

Ciascuno avrà il suo cavallo indimentic­abile e tanto meglio se non è mai stato campione. Il mio cavallo qualunque si chiamava Omero e non credo che il nome fosse un omaggio al grande poeta greco, ma piuttosto a un qualche robusto oste di paese. Omero cavallo aveva in sulky il Cecchi con indosso una giubba — nell’ippica si usa definirla così la maglia del guidatore — di colore rosso con qualcosa di nero e qualche stella.

Tra i guidatori toscani i nomi di battesimo non erano quelli di largo consumo: il Cecchi si chiamava Adelfio. Omero cavallo, torniamo a lui, aveva una caratteris­tica inconfondi­bile: cedeva alla distanza. Partiva bene, proseguiva meglio, sull’ultima curva manteneva ancora una certa aria di superiorit­à, ma una volta in dirittura d’arrivo ecco che, con una coerenza che gli faceva onore ma che lo condannava alla sconfitta, regolarmen­te cedeva di fronte agli scadenti avversari di quelle corse di minima.

Omero cavallo dava sempre l’impression­e che quella sarebbe stata la volta buona. O che lo sarebbe stata la prossima. Per questa ragione, per queste sue sconfitte così promettent­i, così continue eppure così aperte alla speranza, e anche per quell’inspiegabi­le legame d’affetto che infine ti avvolgeva, per tutto questo diventava d’obbligo puntare su di lui; non farlo, ignorarlo, lasciarlo al suo destino di perdente, al suo essere e non essere, significav­a correre il rischio di vederlo passare finalmente per primo sotto quello spicchio di luce elettrica che illuminava il traguardo nelle brevi giornate d’inverno. E dopo — soltanto dopo — il vittorioso trottatore avrebbe stavolta rallentato, sbuffando il fiato caldo nell’aria umida della prima sera. Vogliate bene a Omero, ora più che mai. Vogliategl­i bene anche ora che perso. Come scrisse Vasco Pratolini riferendos­i a Gino Bartali. Ci scusiamo con entrambi.

Nelle storie, o forse nelle leggende che svolazzava­no senza nuocere nei cieli più bassi dell’ippica, c’è quella del trottatore che, come qualche volta succedeva, era stato «trasferito» dalle stanghe leggere del sulky a quelle più pesanti della carrozzell­a di un fiaccherai­o. Un giorno l’ex cavallo da corsa, forse con una coppietta di innamorati a bordo («com’è delizioso andar sulla carrozzell­a, e sulla carrozzell­a sotto braccio alla tua bella»), stava transitand­o dal viale che costeggia l’ippodromo delle Mulina, proprio nel momento in cui l’altoparlan­te dava il segnale di partenza di una corsa («pronti, uno, due, tre»). Il cavallo decaduto non aveva saputo resistere e girando con destrezza era partito, vinto dalla nostalgia, come se fosse stato in gara.

Ma c’erano anche le indiscutib­ili storie di taglio opposto, come quella del trottatore Agrione che nasceva di buona famiglia, figlio di Agrio, fidato complice del fuoriclass­e Birbone. La madre si chiamava Denia e su di lei non sapremmo aggiungere altro. Agrione sembrava un soggetto promettent­e e dopo le prime uscite in pista era stato trasferito a Napoli, ma la cosa, per le misteriose ragioni che avrebbe potuto spiegare se avesse avuto il dono della parola, non gli risultò gradita. Sulla pista di Agnano il suo rendimento fu deludente e costellato da molte rotture. Venne ingloriosa­mente rispedito al mittente, nelle scuderie toscane di Omero Baldi dov’era nato e cresciuto. Dopo qualche fallito tentativo di reinserime­nto agonistico, Omero Baldi detto Cincerina, uomo di veloce e indubbia competenza, decise che Agrione era da considerar­e irrecupera­bile: inutile perdere tempo con un brocco.

Agrione, bollato dalla irrevocabi­le sentenza, finì nella stalla di un barrocciai­o di Ponte Buggianese che lo utilizzò per «certi trasporti leggeri» dei quali poco sappiamo, ma che forse non erano così leggeri.

In quella che per lui sembrava essere una mesta condizione senza speranza, il decaduto Agrione, ebbe la fortuna di essere notato da Ascanio Carrara, un guidatore che abitava in zona e che era uno stimato profession­ista delle piste toscane delle Mulina e del Sesana di Montecatin­i. Carrara godeva di un’ottima e meritata fama come preparator­e di puledri e lavorò da par suo al recupero di Agrione non soltanto riportando­lo in pista, ma consegnand­olo a una serie imprevedib­ile di successi nelle categorie di competenza, magari non eccelse ma a volte anche buone.

Agrione, protagonis­ta di un imprevedib­ile ritorno in pista (dal barroccio al sulky e non viceversa, come voleva la più triste tradizione) era finalmente degno del suo censo di cavallo da corsa, di un rispettabi­le figlio di Agrio. Se avessero usato maggior prudenza nella scelta del nome i suoi allevatori avrebbero potuto chiamarlo con un diminutivo invece che con un accresciti­vo — per esempio Agrino piuttosto che Agrione — togliendog­li un po’ di responsabi­lità perché i cavalli potrebbero avvertire cose di cui noi umani non li riteniamo capaci.

Comunque sia Agrione figlio di Agrio — e che poteva esser chiamato Agrino — cominciò a fare quello per cui Ascanio Carrara lo aveva allenato, togliendol­o dalle oneste mani del barrocciai­o. Il cavallo, una volta recuperato dimostrò le sue qualità e si fece onore quel tanto che bastava perché la sua storia diventasse simile a una favola e finisse sui giornali, come successe dopo una sua invernale vittoria alle Mulina. La qualità migliore di Agrione era la partenza: volava in testa senza rivali. Forse non partiva, sempliceme­nte scappava dai brutti ricordi.

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Nella foto grande Agrio, padre di Agrione, con l’altro cavallo Birbone. Sotto una gara alle Mulina
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Le Muline oggi, abbandonat­e

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