«Quanti timori per mio figlio, italiano e straniero»
Caro direttore, mio figlio è uno straniero. È nato da padre albanese, è cittadino italiano per legge. Mi chiedo: sarà sempre straniero nel Paese di sua madre? Premessa: tralascio dibattiti su ius soli, integrazione e affini per un momento, discussioni che reputo comunque necessarie perché la superficialità è nemica della crescita sociale. Confrontandomi con un Paese che va dove lo porta la pancia, che si appiattisce su slogan sgrammaticati, mi chiedo: cosa aspetta a mio figlio appena si confronterà con il mondo. Ora, così piccolo, è protetto, ma dopo?
Ogni decennio ha il suo razzismo, forse quello degli albanesi si è ormai esaurito e relegato a qualche fatto di cronaca. Forse, ma non voglio avere questo tipo di rassicurazione, mi fa orrore.
Siamo la generazione più colta e preparata della storia italiana, probabilmente. Precari sempre, ovvio, ma abbiamo studiato, abbiamo i low cost che ci permettono di viaggiare e internet che ci apre tutte le porte del mondo, eppure subiamo la fascinazione di chi è più ignorante di noi, ma sa usare meglio i media. Mai nome fu più azzeccato: comunicazione di massa, e massa la intendo nella sua accezione negativa, quella che prelude al pensiero unico e alla mancanza di critica e approfondimento. Pigrizia, anzi accidia. Non sappiamo più usare il pensiero, abbiamo delegato ad altri la nostra coscienza. La provenienza è diventata una qualità, non un dato oggettivo. Relega lo straniero su un preciso gradino della società, lo amalgama in una classificazione e annulla le identità. Un processo ormai comune che ben si presta alla semplificazione e alla strumentalizzazione.
Ho paura che mio figlio debba confrontarsi con questo mondo. Farò di tutto per offrirgli gli strumenti giusti per affrontarlo. Gli insegnerò a dare rispetto ma anche a chiederlo, usando il pensiero e la parola.
Sono preoccupata perché i valori e l’educazione che gli trasmetto non sono quelli che descrivono la realtà adesso. E più scrivo e più penso che le preoccupazione che trasferisco su un bambino in realtà sono un modo per dare voce alla delusione che porto dentro e mi sembra che investire su mio figlio sia l’unico contributo che possa dare al mondo
Forse la dittatura di Facebook si dissolverà tra qualche anno, forse la nuova generazione è meno contorta e migliore della nostra. Forse.
Devo attaccarmi a questi forse per continuare a giustificare il mio Paese. Purtroppo non è più amore incondizionato, si è rotto qualcosa. Di una cosa sono certa, se questo Paese perderà anche la speranza di migliorare, se mio figlio subirà tutto questo odio, andrò via. E non sarò io a dover lasciare il mio Paese, ma sarà il mio Paese ad aver tradito il nostro patto di amore.