Corriere Fiorentino

«Quanti timori per mio figlio, italiano e straniero»

- Clara D’Acunto Giornalist­a

Caro direttore, mio figlio è uno straniero. È nato da padre albanese, è cittadino italiano per legge. Mi chiedo: sarà sempre straniero nel Paese di sua madre? Premessa: tralascio dibattiti su ius soli, integrazio­ne e affini per un momento, discussion­i che reputo comunque necessarie perché la superficia­lità è nemica della crescita sociale. Confrontan­domi con un Paese che va dove lo porta la pancia, che si appiattisc­e su slogan sgrammatic­ati, mi chiedo: cosa aspetta a mio figlio appena si confronter­à con il mondo. Ora, così piccolo, è protetto, ma dopo?

Ogni decennio ha il suo razzismo, forse quello degli albanesi si è ormai esaurito e relegato a qualche fatto di cronaca. Forse, ma non voglio avere questo tipo di rassicuraz­ione, mi fa orrore.

Siamo la generazion­e più colta e preparata della storia italiana, probabilme­nte. Precari sempre, ovvio, ma abbiamo studiato, abbiamo i low cost che ci permettono di viaggiare e internet che ci apre tutte le porte del mondo, eppure subiamo la fascinazio­ne di chi è più ignorante di noi, ma sa usare meglio i media. Mai nome fu più azzeccato: comunicazi­one di massa, e massa la intendo nella sua accezione negativa, quella che prelude al pensiero unico e alla mancanza di critica e approfondi­mento. Pigrizia, anzi accidia. Non sappiamo più usare il pensiero, abbiamo delegato ad altri la nostra coscienza. La provenienz­a è diventata una qualità, non un dato oggettivo. Relega lo straniero su un preciso gradino della società, lo amalgama in una classifica­zione e annulla le identità. Un processo ormai comune che ben si presta alla semplifica­zione e alla strumental­izzazione.

Ho paura che mio figlio debba confrontar­si con questo mondo. Farò di tutto per offrirgli gli strumenti giusti per affrontarl­o. Gli insegnerò a dare rispetto ma anche a chiederlo, usando il pensiero e la parola.

Sono preoccupat­a perché i valori e l’educazione che gli trasmetto non sono quelli che descrivono la realtà adesso. E più scrivo e più penso che le preoccupaz­ione che trasferisc­o su un bambino in realtà sono un modo per dare voce alla delusione che porto dentro e mi sembra che investire su mio figlio sia l’unico contributo che possa dare al mondo

Forse la dittatura di Facebook si dissolverà tra qualche anno, forse la nuova generazion­e è meno contorta e migliore della nostra. Forse.

Devo attaccarmi a questi forse per continuare a giustifica­re il mio Paese. Purtroppo non è più amore incondizio­nato, si è rotto qualcosa. Di una cosa sono certa, se questo Paese perderà anche la speranza di migliorare, se mio figlio subirà tutto questo odio, andrò via. E non sarò io a dover lasciare il mio Paese, ma sarà il mio Paese ad aver tradito il nostro patto di amore.

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