AGGRAPPATI AI COMUNI
«L’Italia finisce. Ecco quel che resta». Parole e musica di Giuseppe Prezzolini, un grande Italiano. Uno straniero in Patria costretto a emigrare prima negli Stati Uniti e poi in Svizzera nel disperato tentativo di sentirsi fuori dai confini italiano. Purtroppo, invano. Massimo D’Azeglio disse che con l’Unità nazionale l’Italia era fatta. Ma di decennio in decennio questo nostro Belpaese si sta liquefacendo come il sangue di San Gennaro. Quanto agli italiani, con buona pace di D’Azeglio, devono ancora farsi. Per forza. Biascicano parole che assomigliano alla lontana alla lingua di Dante. Non onorano il Tricolore neppure nelle feste comandate. E Goffredo Mameli, sì quello dell’Inno, è come Carneade un illustre sconosciuto. Vivono immersi in un presente tutto bianco e nero, ma più nero che bianco. Non si azzardano a immaginare che cosa ci aspetti oltre la siepe. E la Storia per costoro è arabo. Da buon amico del popolo bue, anche il ministro Marco Bussetti — si suppone a sua insaputa — ha avuto la bella pensata di ridurre l’orario d’insegnamento della storia nelle scuole. Quando si dice il genio.
Il sullodato ministro è in buona compagnia. Per dire, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli ha in uggia le opere pubbliche. Si tratti di tunnel o di ponti. Dichiara di lavorare 16 o addirittura 18 ore al giorno. Per la disperazione della consorte, dice, preoccupata del suo stato di salute. Dovrebbe prendersi un meritato riposo. Ma lui, niente. Non sente ragioni e procede dritto per la sua strada con il rischio di andare a sbattere. C’è poi il ministro Riccardo Fraccaro che pretende di coniugare la democrazia diretta con quella rappresentativa — come dire culo, con rispetto parlando, e ventiquattr’ore — con l’aspettativa che quest’ultima un giorno o l’altro tiri le cuoia. E che dire dei consoli Luigi Di Maio e Matteo Salvini? Filano d’amore e d’accordo finché non litigano come i ladri di Pisa. Tranquilli. Questa classe politica nel bene e nel male, ma più nel male che nel bene, è lo specchio fedele di una società che ci ostiniamo a definire — chissà perché — civile. Assistiamo attoniti a una rivoluzione de noantri. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Come quel tale uscito indenne dalla rivoluzione francese, anche noi cerchiamo alla bell’e meglio di sopravvivere. Almeno finché lo stellone della Repubblica ci assisterà.