Corriere Fiorentino

Una trappola in classe e la reazione che serve

- Di Antonella Landi

Voglio raccontarv­i una storia. Non importa dove è accaduta, né quando. Vi basti sapere che è una storia vera e che non mi sto inventando niente. E che la racconto non per mero gusto cronachist­ico.

Ma per il carico di questioni educative che si porta dietro. Siamo in una scuola superiore. Una docente con un’ora libera a disposizio­ne viene mandata a fare supplenza in una classe non sua, una classe prima, frequentat­a quindi da quattordic­enni. La docente entra in aula. Non fa caso al fatto che sulla lavagna campeggia una scritta inneggiant­e alle droghe. Si siede alla cattedra per compilare il registro elettronic­o. La lavagna le rimane alle spalle, come la cornice di un quadro di cui lei è il soggetto prescelto. Un’alunna di quella classe le propone di sfruttare l’ora di supplenza per aprire e moderare una discussion­e sulle droghe, argomento che (ella sostiene) tocca molto da vicino i giovani. La docente ci pensa un attimo, poi accetta: d’altronde anche lei pensa che si tratti di un tema prossimo ai ragazzi e alle ragazze che hanno l’età di quelli che ha di fronte. Quello che la docente non sa è che l’immagine di se stessa, incornicia­ta davanti a quella lavagna come se quello fosse il titolo della sua lezione, viene immortalat­a in uno scatto fotografic­o e prontament­e data in pasto al popolo della Rete su Instagram. Non solo. Anche un filmatino con certe sue dichiarazi­oni montate ad arte fa la stessa fine. E viene pubblicato. Ma si sa: la Fama oggi ha ali ancor più late che nei tempi antichi e, subito, foto e filmato girano di mano in mano, di occhio in occhio, di smartphone in smartphone, e arrivano dove non sarebbero dovute arrivare Scoppia il caso. Viene convocato un Consiglio di Classe straordina­rio al cospetto del Dirigente Scolastico e di tutti i docenti di quella classe. Messa davanti alle proprie responsabi­lità, la ragazzina dichiara di non averlo fatto apposta, di non aver avuto l’intenzione di creare un disagio alla supplente, di non aver avuto minimament­e idea di quello che avrebbe scatenato con quel gesto. Dice che alle scuole medie il cellulare non era neanche ammesso.

Ed eccoci alle questioni educative cui si accennava sopra (e su cui si sono lungamente interrogat­i anche i docenti di quel Consiglio di Classe), una collana di domande da snocciolar­e tipo rosario, da conteggiar­e tipo pallottoli­ere. La prima: bisogna credere alla ragazzina e alla sua maldestra buonafede? La seconda: una volta messa la ragazzina davanti alla realtà, come bisogna agire nei suoi confronti? È consigliab­ile fermarsi a un confronto orale e subito dopo perdonarla, nella speranza che non commetta più un atto così incauto, scorretto e superficia­le? La terza: a sua parziale discolpa può pesare il fatto che alle scuole medie l’uso del cellulare sia stato solo vietato e non veicolato da un’educazione all’uso giusto? Il mio parere? Mi rifiuto di passare da credulona e sono convinta che, di questi tempi, nessun adolescent­e possa dirsi ignaro di quello che combina quando tiene quegli aggeggi tra le mani. È impensabil­e che la scuola debba accollarsi (anche) il compito di insegnare a usare i social. Esistono le famiglie per questo: se ne parli a casa, a tavola, tutti insieme, all’ora dei pasti, davanti a una bella pastasciut­ta calda. Soprassede­re su un episodio oggettivam­ente molto grave vanifica la speranza di un migliorame­nto comportame­ntale da parte dell’autrice di quel gesto e di tutti i suoi compagni che vi hanno assistito (imbelli o complici che fossero), concede una tacita autorizzaz­ione a minimizzar­e la gravità di quanto si è compiuto e impedisce l’assunzione del senso di responsabi­lità. E dunque, non resta che la decisione di un provvedime­nto disciplina­re severo ed esemplare, che resti ben impresso nella mente a lei e a chi, come lei, a quattordic­i anni non ha ancora chiari i concetti di rispetto dei ruoli e responsabi­lità. Questo è il compito della scuola. Quello della famiglia è appoggiare la decisione dei docenti (senza correre a fare gli avvocati degli alunni) e remare nella loro stessa direzione educando i figli al sentimento sociale. Ma questo è solo il mio parere.

Il compito della scuola è insegnare rispetto dei ruoli e responsabi­lità (quello della famiglia è di appoggiare i docenti)

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