E la Versilia cambiò Carrà
A Palazzo Reale di Milano un’antologica sul maestro del Manifesto pittorico futurista Aderì a vari movimenti ma chiuse la sua produzione con un naturalismo ispirato alla Toscana
Ci vuole del genio ad attraversare almeno quattro corrente artistiche e ad evolvere, rimanendo fedeli a se stessi, proprio perché non si resta mai fermi e dunque non si sconfessano le trasformazioni che la vita e l’incontro con l’altro determinano in noi. Quel genio si manifesta in modo evidente, e per questo facilmente fruibile, nella bella mostra che Palazzo Reale di Milano dedica in questi giorni (sino al 3 febbraio) a Carlo Carrà (1881-1966), maestro piemontese e milanese sì, ma accorto studioso dell’arte toscana — dedicò a Giotto, Paolo Uccello, Piero della Francesca studi e riflessioni come testimonia il percorso espositivo e il catalogo edito da Marsilio — e soprattutto, da un certo punto della sua carriera di pittore, fermamente legato a un naturalismo che, per sua stessa ammissione, gli veniva ispirato dalle lunghe estati trascorse in Versilia. L’omaggio alla luce di Toscana, alle sue forme morbide, all’eleganza del paesaggio addomesticato dall’intervento dell’uomo, a Forte dei Marmi, a Torre del Lago, a Cinquale, è evidente nelle ultime sale di una mostra ricchissima, curata da Maria Cristina Bandera, esperta di Carrà e direttrice scientifica della Fondazione Roberto Longhi di Firenze, (130 sono le opere esposte) con la collaborazione di Luca Carrà, nipote del maestro, fotografo e responsabile dell’archivio di Carlo Carrà. Centotrenta opere che tengono conto di questa feconda trasformazione il cui epilogo sarebbe stato un ritorno «all’essere uomo» come, scrivendo su di lui, asseriva Roberto Longhi, storico dell’arte, ma prima ancora, nel caso di Carrà, suo amico.
Ma torniamo al maestro della mostra. Scriveva di se stesso Carrà: «La mia pittura è fatta di elementi variabili e di elementi costanti». Se le variabili erano i principi teorici e le idee estetiche — fu divisionista, cubista , futurista, pittore metafisico prima di tornare a un naturalismo intriso di paesaggi e di figure ritratte in pose intime e intense — l’invariabile che va ravvisato in ogni suo quadro è la forza del colore — «i rossi e i gialli più espansivi» e dunque più impastati con la luce, «i blu e i verdi meno ricettivi» a quest’ultima e quindi più concentrati — e la divisione dello spazio e dei piani. Per quest’ultima prese a maestri Paolo Uccello e Piero della Francesca a cui nel 1914, su la Voce, avrebbe dedicato due scritti: Parlata su Giotto — e non sarebbe stato l’unico sul maestro di Vicchio — e Paolo Uccello costruttore.
In mostra, in un andamento diacronico impeccabile, troviamo i quadri divisionisti (Uscita da teatro, 1909-1910 o Luci notturne, 1911) quelli cubisti (Ciò che mi ha detto il tram, 1911), futuristi (Il Cavaliere rosso, Cavallo e cavaliere, 1913, perfetta realizzazione di quel Manifesto della Pittura futurista che lui stesso avrebbe scritto con Boccioni, Balla, Severini e Russo- lo), metafisici (La camera incantata, 1917, frutto dell’incontro ferrarese con de Chirico e Savinio). Poi, come una rivoluzione figurativa, un cambio repentino. Dalla metà degli anni ‘20 inizia quel ciclo che sempre Longhi avrebbe definito quello delle «poesie marine» di Carrà.
Il maestro sceglie la Versilia e Forte dei Marmi in particolare come suo buen retiro estivo. E qui, dove tornerà ogni anno fino alla morte, per 40 stagioni consecutive, dipingerà più di 300 opere e si farà costruire una villetta, tirata su con un progetto che è suo. L’incipit di questo passaggio è già evidente in un olio su tela del 1921 di straordinaria bellezza: è Il Pino sul mare, un’opera in cui una certa immobilità e un certo straniamento metafisico si coniugano con l’indulgere su soggetti tipicamente naturalistici. È un quadro ponte che lo stesso Carrà avrebbe commentato così: «Con questo dipinto io cercavo di ricreare, per quanto le mi capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica della natura. Tale visione, nata da una lunga oscura gestazione, significava per me l’albeggiare di una grande verità pittorica quasi del tutto inedita nelle mie precedenti tappe... in esso è impresso quel tanto di ordine nuovo che ero andato maturando con studi appassionati sulla realtà naturale, dal ‘918 in poi». (Carlo Carrà, La mia vita, Longanesi). Da questo momento nella vita del pittore e in mostra si avvicenderanno quadri — come Sera sul lago, 1924, La segheria dei Marmi, 1928, chiaro omaggio alle Apuane, Pioggia al mare, 1929, Il cancello rosso. Pilastri rossi, 1930, che rappresenta il suo ingresso nella casa del Forte — dove si sente forte l’influenza delle lunghe villeggiature in Versilia. E in cui, come in quell’Estate, del 1930, i colori e le forme dei bagni cari ai fiorentini si accompagnano a gesti di donne intente ad asciugarsi con teli da bagno: un’attività evidentemente tanto semplice e familiare da diventare universale. E che colpisce chi osserva generando una indefinibile nostalgia di abitudini perdute.
Non finisce così la mostra. Parecchi passaggi sono dedicati a visioni veneziane o a scorci pompeiani, a omaggi a Capri e a dinamiche figure di giocatori, e ancora ad autoritratti e a nature morte. Tante nature morte. Ma tutte queste opere, seppur ispirate a temi e a soggetti diversi, rispetto a quelle «toscane» risentono di quel nuovo naturalismo, impastato dalle correnti che Carrà aveva attraversato da giovane, che il sole, il mare, le colline e le Alpi Apuane gli avevano ispirato.