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A cento anni dalla nascita di Pampaloni il ricordo dell’intellettuale fiorentino Fu il braccio destro di Adriano Olivetti, ma la sua vera vocazione era la critica militante
Per il giovane cronista letterario nella Firenze dei primi anni ’80 c’erano due appuntamenti obbligati in occasione di ricorrenze legate alla cultura toscana del ‘900: le interviste a Gaetano Baldacci e a Geno Pampaloni che domenica prossima avrebbe compiuto cento anni. Era un impegno ameno, perché quei due grandi critici letterari si compiacevano di sostenere l’uno il contrario dell’altro, e di condurre dalla loro l’intervistatore. Non era una contrapposizione politica, bensì morale e forse, nel caso di Baldacci, un po’ umorale. Se questi era uno spirito laico, nonostante (o forse per) l’influenza di un colto zio prete, Pampaloni era un cattolico con venature manzoniane, che l’Osservatore Romano celebrò come uno «studioso sempre in stato di grazia».
Baldacci riceveva nella sua casa di via Pandolfini, fra incombenti tele barocche; Pampaloni in un villino neoclassico di piazza Savonarola presso gli uffici della Edipem, la casa editrice che aveva fondato da una costola della De Agostini. A differenza di Baldacci non aveva seguito la carriera accademica, pur essendo stato normalista, ma quella di critico militante e manager editoriale. Enfant prodige del giornalismo — appena ventenne collaborava al Telegrafo di Ansaldo — ma anche «fascista illuso e vagamente scontento», si allontanò dal regime per l’influenza di Giaime Pintor e Giacomo Noventa, sognatore di un mondo «assolutamente classico e assolutamente cattolico». Ufficiale di complemento, combatté dopo l’8 settembre nel risorto Regio Esercito; poi aderì al Partito d’Azione e divenne redattore del suo organo, Italia Libera. Dopo la chiusura del giornale, e del movimento, insegnò nelle scuole di avviamento e collaborò al Ponte di Calamandrei.
Proprio alcuni suoi articoli ricchi di sensibilità sociale fecero cadere su di lui nel 1948 l’attenzione di Adriano Olivetti. L’imprenditore umanista, nonché «utopista positivo», lo volle a Ivrea, con responsabilità crescenti, da direttore della biblioteca aziendale a capo dell’ufficio di presidenza, tanto che qualcuno decriptò il logo della Olivetti Spa in un «Se Pampaloni Acconsente». L’ex professorino subì il fascino di quell’industriale atipico, pur avvertendone le contraddizioni di progressista antistoricista e di «illuminista magico», che per la selezione del personale ricorreva anche all’astrologia. E divenne segretario del movimento politico legato alla rivista Comunità, la cui disfatta elettorale nel 1958 segnò la fine della sua esperienza all’Olivetti.
Il lavoro non gli mancò: alla Rai, alla Vallecchi, di cui fu direttore senza però riuscire a impedirne il tramonto, alla Edipem, per qualche tempo alla guida del Vieusseux. Ma la sua vera vocazione era la terza pagina. Fu un collaboratore di punta della «Nazione», del «Corriere», poi del «Giornale». Un suo articolo faceva testo e provocava magari polemiche, come quella di Aldo Busi, stizzito per una poco lusinghiera recensione del Seminario sulla gioventù, ma in realtà gli era ignoto il gusto spavaldo della stroncatura. Si accostava al romanzo da recensire con umiltà, sottolineandone a matita i passi salienti, cercando di ricostruire l’intima natura del testo. Proveniva dalla grande scuola dei Pancrazi e dei Cecchi; le sue recensioni domenicali, nelle pagine centrali dell’inserto del «Giornale», ricordavano le «Causeries du lundi» di Sainte-Beuve, con la differenza che Pampaloni non condivideva del sommo critico ottocentesco le debolezze verso i potenti. Sainte-Beuve sacrificò all’imperatore Napoleone III, ma lui lasciò l’amato «Giornale» dopo la discesa in campo di Berlusconi. Chi scrive lo incontrò per la prima volta nel giugno del 1980, per un’intervista sul rapporto fra industria e letteratura. Era stata commissionata dal suo amico Alfredo Cattabiani, che, dimissionato dalla Rusconi Libri, era divenuto caposervizio per la cultura del Settimanale. L’ultimo incontro fu nel 1999, due anni prima della sua morte, in occasione della commovente cerimonia, organizzata in Palazzo Vecchio da Ruth Cardenas e Vittorio Vettori, per celebrare gli 80 anni del critico. Ma l’ultimo vero colloquio risale al febbraio del 1991. Pampaloni presentava con Tombadori e Santini la rivista Critica d’Arte nella sala della Cassa di Risparmio in via Folco Portinari. Più che della rivista, si parlò della guerra del Golfo in pieno svolgimento. Visibilmente commosso, il grande critico appariva diviso fra le ragioni della forza di pace, che poi prevalsero in lui, e l’appello di un pacifismo cattolico mobilitato contro l’intervento. Quello che Marino Biondi ha definito il suo «storicismo traumatico» era messo ancora una volta alla prova. Ma anche in quella circostanza di questo testimone del ‘900 che aveva assistito a un conflitto mondiale e alla bancarotta di tre sogni politici si potrebbe replicare quanto egli aveva scritto dell’amato Manzoni al termine del suo magistrale commento dei Promessi Sposi: l’ottimismo della fede temperava in lui il pessimismo della ragione.
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Gli era ignoto il gusto spavaldo della stroncatura, si accostava al romanzo da recensire con umiltà