I versi studiati ad arte per sedurre il pubblico
«Pavida e vacillante messaggera di questa comica truppa, mi presento, alla città più colta e perspicace che l’Italia vanti e che l’Italia onori». Chiara Benedetti, primadonna di una comica compagnia veneziana, così si rivolgeva al pubblico fiorentino il 20 aprile del 1778. I versi erano del conte Carlo Gozzi, maestro nella scrittura delle fiabe teatrali, e rivale acerrimo di Carlo Goldoni, che specialmente era richiesto dalle compagnie, anche per prologhi di occasione, per sedurre il pubblico e convincerlo a apprezzare le grazie della produzione proposta. I suoi Versi per gli attori escono ora in un volume curato da Giulietta Bazoli e Franca Vazzoler, edito da Marsilio. Dalla Gazzetta Toscana del 22 aprile di quell’anno, sappiamo il titolo di uno dei lavori presentati: Fernando Cortes, ossia il Montezuma, una versione dal francese, per cui: «L’udienza dimostrò la sua approvazione con gli incessanti sbattimenti di mano». Nel testo per la platea fiorentina, il tema principale svolto da Gozzi è quello dell’idioma settentrionale (veneziano, ma all’epoca indicato come «lombardo»), che forse spiacerà nella terra di Dante. Così chiedeva venia la primattrice, indicando, secondo la ben nota figura retorica, la perfezione della lingua toscana: «Se di pura favella e acuti ingegni questa città è adorna, in lei risplende anche pietà e indulgenza e avrà scusa dei dialetti natii vari l’accento».