E LA GUERRA SVELÒ IL FACCIA A FACCIA BRUNELLESCHI-ARNOLFO
Achi è nell’atto di mangiare un panino al lampredotto al Porcellino, evento che corrisponde all’unico motivo per cui un fiorentino può ritrovarsi qui, visto quanto la gangrena turistica attacca una zona che non può neanche difendersi con la bellezza, dato che i palazzi sono stati fatti brillare nel ’44, potrebbe capitare, specie se consuma il pasto appoggiato al davanzaletto sul retro del chiosco, di notare la presenza discreta di una strada, seminascosta dalle bancarelle, dai motorini parcheggiati e da un telefono pubblico. Sarà allora che, se aguzzerà lo sguardo oltre la prima e superficiale impressione di un semplice corridoio di servizio del palazzo Borsa Merci, potrà notare, sul fondo, un balcone a mensole di chiara nobiltà, e allora, buttato giù l’ultimo boccone con l’ultimo gòtto di rosso, spingersi in una via che dietro l’apparenza umilissima cela invece tesori d’un certo peso. Per aver nozione di tutto ciò, non è del resto d’aiuto la toponomastica: se è vero che il nome di Capaccio deriva da caput acquae, ovvero il serbatoio dove giungeva l’acquedotto romano che scendeva dalle pendici del Monte Morello, l’attribuzione è invece errata, dato che il capaccio stava dove è ora il vicolo del Panico. Prima, la strada si chiamava via del Monte Comune, odonimo già più sensato, poiché nei locali dell’Arte della Seta e in quelli di Parte Guelfa aveva preso sede un banco di prestito permanente, istituito nel corso della guerra contro Lucca. Quando, 500 anni dopo, in una guerra assai più considerevole, l’isolato che dava sulla strada fu raso al suolo, e le macerie furono poi sgomberate, Firenze scoprì la grazia sublime del retro brunelleschiano del Palagio di Parte Guelfa, di cui naturalmente fa parte il balcone a mensolette di cui sopra. Invano gruppi prima improvvisati e poi organizzati di esteti cittadini si batterono per lasciare tutto così, e passare dunque a «piazza del Capaccio», così che il Brunelleschi di Parte Guelfa facesse distante specchio all’Arnolfo di Palazzo Vecchio: il dopoguerra dettava (comprensibili) smanie ricostruttrici e così quel retro, in cui fa sfoggio di sé anche il donatelliano stemma dell’Arte della Seta, tornò a darsi solo a chi lo scopre per caso.