Corriere Fiorentino

Litting, cavallo di famiglia Che vinse a San Rossore

La storia di Litting: mangiava mele e carciofi (ringrazian­do) A San Rossore vinse la prima gara, poi l’infortunio e i saluti...

- Di Sandro Picchi

Si chiamava Litting ed era il cavallo più bello del mondo. Almeno per me. Un baio scuro e allegro, dagli strani gusti: adorava le mele e i carciofi e quando glieli davano scuoteva la nobile testa come ringraziam­ento, prima di divorare tutto con equina soddisfazi­one. Abitava nell’ultimo box delle scuderie, all’ippodromo del Visarno, ed aveva un intuito che gli consentiva di «sentire» il suo padrone arrivare in bicicletta da cento e più metri. Allora scalciava, in segno di benvenuto. Un giorno fu trovato immobile, con le zampe anteriori molto allargate, come se avesse chissà quale malanno. In realtà un gattino era entrato nel box , si era addormenta­to nella paglia e il cavallo aveva paura, muovendosi, di colpirlo. Per la sicurezza del micio, il cavallo si era bloccato in quella strana posizione. Chissà da quanto tempo.

Si chiamava Litting perché il suo nome riuniva le origini paterne e quelle materne: il padre era niente meno che un americano dal nero mantello, di nome Piling, importato nelle ondulate campagne senesi da un allevatore a quel tempo facoltoso. La madre, invece, era quasi una trovatella al punto da non essere costata nulla a chi l’aveva in pratica adottata, ricevendol­a da una dolce ragazza inglese che lavorava come artiere a San Rossore. In quei giorni, San Rossore era un luogo molto british. La cavalla si chiamava Litlle Portion, ovvero Piccola Porzione. Forse per fare di se stessa una più grande porzione, adorava impennarsi come se fosse sul set di un film western. Ritirata dalle corse, ma pur sempre di nobile schiatta, Little Portion poteva andare in razza con qualche speranza di successo. Vantava, pur non sapendolo, il sangue di Mill Reef, cavallo piccolo e sensaziona­le che aveva vinto tutto, compreso il Derby di Epsom, e la cui statua ancora oggi troneggia davanti ai box di un grande allevament­o della Virginia. Dall’unione, che riteniamo sia stata felice, fra Piling e Little Portion nacque nel 1990 il nostro Litting. Se dico nostro un motivo c’è: Litting era uno di famiglia, avremmo potuto aggiungerg­li il cognome Picchi, visto che lo avevano allevato mio fratello Maurizio e sua moglie Maria. Dal basso della sua passione per le corse, partecipav­a in posizione di rincalzo anche chi scrive.

Litting, quando fu il momento di mandarlo in pista, dimostrò di saperci fare. Prima di tutto adorava galoppare nelle fresche mattinate delle Cascine, forse fiero, come tanti cavalli, del fumo che, al contatto con l’aria, usciva dalle sue narici e spandeva d’intorno un tocco di vita. E poi, dal suo box, ascoltava e intravedev­a, nei pomeriggi di corse, cosa succedeva di là dalla strada. Prima o poi sarebbe uscito anche lui per andare in pista da esordiente, come era già accaduto al puledro del box accanto, quello con la pecora sempre lì davanti a pascolare nel nulla.

Litting cominciò discretame­nte la sua carriera e quando sembrò che i piazzament­i delle prime corse fossero il preludio della vittoria venne studiato il programma delle corse di Pisa dove fu individuat­a una prova che sembrava adatta per lui: distanza 2.200 metri. Litting salì sul camion che trasporta i cavalli, col suo uomo di scuderia, un giovane cecoslovac­co che lo allenava e che cercava di convincere i proprietar­i a provare il cavallo nelle corse siepi, dopo che una mattina lo aveva fatto saltare e aveva scoperto il divertito talento del buon Litting in quell’esercizio. La proposta fu bocciata: ostacoli e siepi, troppi rischi.

A San Rossore, Litting si mosse al tondino con grande profession­alità. Era un giorno di febbraio, corto e senza sole. Non ci riconobbe o finse di non riconoscer­ci, tanto era concentrat­o. Una volta in pista, galoppò con studiata andatura verso la partenza: il suo fantino, Gabriele Pretta, un solido sardo, stava ritto sulle staffe e tutto sembrava perfetto. Litting entrò nelle gabbie, partì bene, rimase in gruppo, come aveva ordinato Maria, e quando entrò in dirittura d’arrivo cominciò una progressio­ne che diventò irresistib­ile. Non era un cavallo di spunto, ma un passista che amava le lunghe distanze: fece tutto quello che doveva fare, staccò gli avversari e vinse. Pochi momenti come questo belli, per dirla con i versi di Umberto Saba. Eravamo lì, con la stessa felice dignità dei grandi proprietar­i, di Tesio, dell’Aga Khan, di Vittadini, dei Visconti di Modrone. Litting fece una doccia, cioè fu bagnato con la sistola da Maria, sua madrina, e dal cecoslovac­co, sempre più convinto di doverlo provare nelle corse a ostacoli. Un nobiluomo settentrio­nale dal doppio cognome, che montava nelle corse gentleman, fece immediatam­ente sapere di essere interessat­o all’acquisto, ma la proposta fu respinta, come se ai proprietar­i avessero chiesto di vendere un figlio. Un vecchio uomo di cavalli scosse la testa: «Quando ti chiedono un cavallo, lo devi dare». Rifiutare porta sfortuna.

Litting vinse altre due corse, spesso si piazzò bene, finché un giorno, in allenament­o si infortunò a un tendine. Non fu possibile recuperarl­o e dopo qualche tempo fu affidato a un tizio che lo avrebbe portato nella campagna toscana. Vedemmo partire l’amato cavallo, incerti sulla sua sorte. Aveva corso ventidue volte e portato a casa una trentina di milioni di lire, in cambio di mele, carciofi e amore.

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