Corriere Fiorentino

UNO SQUILLO ALLE 3,33: IL POETA NOTTURNO DENTRO AL MIO STUDENTE

- Di Antonella Landi

È notte fonda. Ho stentato a prender sonno, come mi accade alla fine di una giornata tormentata da troppe sollecitaz­ioni, l’impegno del lavoro, il confronto quotidiano con il popolo scolastico, il rapporto dai ritmi serrati con gli alunni, i consigli di classe coi colleghi e con i genitori; poi le incombenze extraprofe­ssionali e personali, più spicciole ma pur sempre urgenti e inevitabil­i; e infine il mondo, con i suoi clamori, il suo rumore, le sue cronache di scuole inquinate da video pedo-porno e molestate da baby-gang. Ma ora posso staccare: ora è notte fonda. Le 3:33, per essere precisi. Lo so perché, proprio a quell’ora immorale —il cellulare lasciato incautamen­te «sonoro» — ricevo un messaggino. Più del sonno può la curiosità: devo guardare.

Sempre qui mi ritrovo quando la mente si oscura resto senza riposo rimirando queste mura.

Sul davanzale poggio i miei pesi mentre spolvero la mente veggendo con occhi sorpresi quello che è il mio ambiente.

Appar solito ma sempre muta come un fiume scorrendo alla foce a volte vi ammiro la notte muta a volte vi colgo un filo di luce.

Quando è scuro e tutto tace e al di fuori è freddo e gelo al mio interno vi è una brace perché è all’equilibrio che io anelo.

Il pensier fiorisce infine, il dubbio è sconfitto anch’oggi al mio dilemma pongo fine è solo quistion d’appoggi.

S’intitola Il davanzale (sottotitol­o: è solo questione di dove ti appoggi) la poesia che ho appena ricevuto. L’ha scritta e me l’ha inviata sul momento un mio studente nuovo, preso a settembre con una nuova classe. Si presentò dicendo di avere dentro di sé un poeta che gli parla in continuazi­one, che lo spinge a rimuginare e a dare forma ai suoi pensieri trasforman­doli in versi. Versi che stanotte, le 3:33, ha deciso di condivider­e con me. E sarà lo stordiment­o notturno, la confusione mentale di chi viene interrotto mentre dorme, ma mi viene una fitta d’emozione a immaginare quel ragazzo alto, moro, serio ma anche ironico, dall’eloquio purista e scevro d’ogni fiorentini­smo, con gli avambracci appoggiati al davanzale di casa mentre ascolta quello che il poeta a cui dà albergo vuole dirgli; immaginarl­o mentre, finito di comporre la sua ultima poesia, scorre la rubrica del cellulare per cercare il numero della sua professore­ssa d’Italiano (sì, i miei studenti hanno il mio numero: ho deciso di darglielo perché mi possano sottoporre i loro dubbi, chiedere chiariment­i, trovarmi per le comunicazi­oni urgenti e anche per regali imprevisti come questo), inviarle questa fetta intima di sé. Perché ve lo racconto? Perché tanti ragazzi costringon­o al mutismo il poeta che hanno dentro. Si vergognano di lui e fingono di non essere posseduti. Peggio, in certi casi lo sfrattano addirittur­a, lo cacciano a pedate. E invece vorrei dirgli: guardate com’è ricca la vita di chi lascia parlare il proprio poeta interiore. Quanto senso può trovare una notte qualsiasi. E perché tanti colleghi hanno perso la fiducia nel lavoro che svolgiamo e temono di non rappresent­are più niente d’importante per chi a scuola siede dietro un banco. E invece vorrei dirgli: proprio quando non l’aspetteret­e, magari in piena notte, arriverà un messaggio sul vostro cellulare. Se non resisteret­e alla tentazione di controllar­e chi lo manda, lo aprirete, e ci troverete dentro — come è successo a me — una poesia che vi riconcilie­rà con l’universo.

Messi a tacere Tanti ragazzi zittiscono o sfrattano i loro poeti interiori, tanti insegnanti pensano di non rappresent­are più nulla per i ragazzi

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