UNO SQUILLO ALLE 3,33: IL POETA NOTTURNO DENTRO AL MIO STUDENTE
È notte fonda. Ho stentato a prender sonno, come mi accade alla fine di una giornata tormentata da troppe sollecitazioni, l’impegno del lavoro, il confronto quotidiano con il popolo scolastico, il rapporto dai ritmi serrati con gli alunni, i consigli di classe coi colleghi e con i genitori; poi le incombenze extraprofessionali e personali, più spicciole ma pur sempre urgenti e inevitabili; e infine il mondo, con i suoi clamori, il suo rumore, le sue cronache di scuole inquinate da video pedo-porno e molestate da baby-gang. Ma ora posso staccare: ora è notte fonda. Le 3:33, per essere precisi. Lo so perché, proprio a quell’ora immorale —il cellulare lasciato incautamente «sonoro» — ricevo un messaggino. Più del sonno può la curiosità: devo guardare.
Sempre qui mi ritrovo quando la mente si oscura resto senza riposo rimirando queste mura.
Sul davanzale poggio i miei pesi mentre spolvero la mente veggendo con occhi sorpresi quello che è il mio ambiente.
Appar solito ma sempre muta come un fiume scorrendo alla foce a volte vi ammiro la notte muta a volte vi colgo un filo di luce.
Quando è scuro e tutto tace e al di fuori è freddo e gelo al mio interno vi è una brace perché è all’equilibrio che io anelo.
Il pensier fiorisce infine, il dubbio è sconfitto anch’oggi al mio dilemma pongo fine è solo quistion d’appoggi.
S’intitola Il davanzale (sottotitolo: è solo questione di dove ti appoggi) la poesia che ho appena ricevuto. L’ha scritta e me l’ha inviata sul momento un mio studente nuovo, preso a settembre con una nuova classe. Si presentò dicendo di avere dentro di sé un poeta che gli parla in continuazione, che lo spinge a rimuginare e a dare forma ai suoi pensieri trasformandoli in versi. Versi che stanotte, le 3:33, ha deciso di condividere con me. E sarà lo stordimento notturno, la confusione mentale di chi viene interrotto mentre dorme, ma mi viene una fitta d’emozione a immaginare quel ragazzo alto, moro, serio ma anche ironico, dall’eloquio purista e scevro d’ogni fiorentinismo, con gli avambracci appoggiati al davanzale di casa mentre ascolta quello che il poeta a cui dà albergo vuole dirgli; immaginarlo mentre, finito di comporre la sua ultima poesia, scorre la rubrica del cellulare per cercare il numero della sua professoressa d’Italiano (sì, i miei studenti hanno il mio numero: ho deciso di darglielo perché mi possano sottoporre i loro dubbi, chiedere chiarimenti, trovarmi per le comunicazioni urgenti e anche per regali imprevisti come questo), inviarle questa fetta intima di sé. Perché ve lo racconto? Perché tanti ragazzi costringono al mutismo il poeta che hanno dentro. Si vergognano di lui e fingono di non essere posseduti. Peggio, in certi casi lo sfrattano addirittura, lo cacciano a pedate. E invece vorrei dirgli: guardate com’è ricca la vita di chi lascia parlare il proprio poeta interiore. Quanto senso può trovare una notte qualsiasi. E perché tanti colleghi hanno perso la fiducia nel lavoro che svolgiamo e temono di non rappresentare più niente d’importante per chi a scuola siede dietro un banco. E invece vorrei dirgli: proprio quando non l’aspetterete, magari in piena notte, arriverà un messaggio sul vostro cellulare. Se non resisterete alla tentazione di controllare chi lo manda, lo aprirete, e ci troverete dentro — come è successo a me — una poesia che vi riconcilierà con l’universo.
Messi a tacere Tanti ragazzi zittiscono o sfrattano i loro poeti interiori, tanti insegnanti pensano di non rappresentare più nulla per i ragazzi