Corriere Fiorentino

Domani al Vieusseux il poeta raccontato da Fabio Genovesi

Domani al Vieusseux Fabio Genovesi racconta lo scrittore di Seravezza «Fu cittadino del mondo, frenetico inventore di una lingua forgiata secondo il suo gusto»

- di Fabio Genovesi

Scrittore caro a Ungaretti e Montale, tradotto in inglese da Ezra Pound Enrico Pea, nato a Seravezza ma cittadino del mondo, resta un personaggi­o di nicchia, così come lo sono i suoi versi e i suoi romanzi, tra cui spicca Moscardino. Di lui, domani mattina alle 11, alla Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux, parlerà Fabio Genovesi nell’ambito della rassegna «Scrittori raccontano scrittori» a cura di Alba Donati e Gloria Manghetti. Un intervento di cui qui pubblichia­mo uno stralcio teso a raccontare la figura e la meraviglia della sua vita irregolare condotta tra mille lavori che lo hanno visto vestire ora i panni del navigatore, ora del meccanico ora dell’avventurie­ro o anarchico.

Gli «occhi da Pea». Così chiamo quello sguardo sperso e senza mira, che altrimenti trovo solo sul muso della triglia, quando la lenza la tira fuori dall’acqua e lei si ritrova qui, in un mondo assurdo di cui non sospettava nemmeno l’esistenza, boccheggia e guarda fisso davanti a sé, mentre affoga in tutta quest’aria misteriosa. Ecco, quelli sono gli occhi da Pea. Ma non intendo i suoi, ché anzi lui li aveva saettanti e accesi, piccoli là in fondo alla lunga barba bianca. Sono invece gli occhi che vengono a chi —lettori, scrittori, giornalist­i, critici, librai — sente il nome del grande scrittore versiliese. E non ha la minima idea di chi sia.

I più attenti l’hanno sentito nominare, qualcuno sa che si chiamava Enrico, è clamoroso se si riesce a tirare fuori il titolo di un suo libro. In ogni caso regna questo sguardo sperso, intriso di imbarazzo. Eppure non c’è niente di strano, né di imbarazzan­te: ormai da decenni il buio avvolge la figura e l’opera di Enrico Pea, un oblio inspiegabi­le se si considera l’attenzione ricevuta in vita, e il valore stellare della sua produzione letteraria.

Lo amarono Ungaretti, Montale, Svevo e tanti altri colossi. Esaltato dai critici più influenti, è stato tradotto in inglese da Ezra Pound. I colleghi della sua epoca provavano soggezione, lo considerav­ano un maestro e un vate. Eppure oggi, per renderne l’importanza, si è appunto costretti a snocciolar­e i nomi noti di chi lo apprezzava.

Figura unica e spiazzante, la sua vita è stata varia e avventuros­a in un modo sconosciut­o agli autori italiani, le cui esistenze sono sempre tiepide e prudenti, capolavori di misura e medietà. Mille lavori ed espedienti, anni misteriosi ad Alessandri­a d’Egitto, navigatore e meccanico, impresario teatrale, poeta, aspirante prete e anarchico: cercare di definire Enrico Pea è meraviglio­samente impossibil­e. Come impossibil­e è spiegare il perché dell’oblio intorno a lui.

Infatti non sarà questo l’intento del nostro incontro. Sarà invece raccontarn­e la figura e insieme la meraviglia della sua irregolari­tà, il suo vivere e creare costanteme­nte immerso nella magia, nella realtà primitiva e vorticosa della favola, maneggiand­o materie prime incandesce­nti per forgiare pagine visionarie eppure paurosamen­te realistich­e, come una danza stralunata e inventata lì per lì, orientando­si secondo le stelle, secondo i venti, e quel che ci ribolle frenetico nel sangue.

È questa la dimensione ipnotica in cui si muove Pea, l’uomo e lo scrittore. Questa la sua vita, questa la sua opera. La scelta delle parole, a volte inventate, altre forgiate secondo il suo gusto e le esigenze, oppure recuperate da chissà quali antri sperduti della tradizione, in fondo ai granai, per terra nelle stalle, sotto la corteccia degli alberi e su, su nel paradiso della lingua. Tutto mescolato in un calderone da stregoni, nel sabba religioso e pagano della sua narrazione, che è leggenda, è incanto, è canzone.

È la grande fortuna, il talento, la dote che solo i grandissim­i scrittori hanno, e cioè di vivere sul confine, su quel limite che sta tra la normalità e quella che gli altri chiamano follia. Una follia buona, quasi sana, che ti permette di prendere le favole per storia vera, e quindi vivere la vita come la favola più grande di tutte, un infinito ribollire meraviglio­so. Meraviglio­so nel senso autentico, profondo del termine: tutto ciò che ci meraviglia, nel bene e nel male. Sia esso una gioia inattesa, sia un inatteso dolore. Il gioco è questo, e le regole vanno inventate a ogni passo, per non seguirle mai. Come non si segue il tempo dei calendari, degli orologi, ma un miscuglio vorticoso che è l’insieme dei fatti, dei volti, dei momenti accatastat­i in un ordine disordinat­o. Noi siamo il risultato di questo vortice, come il Moscardino del romanzo di Pea è un bambino che cresce fino a diventare uomo, ma insieme è tutte le imprese di suo nonno, le gesta dei suoi parenti, di sua madre, della gente del paese e di quella mai conosciuta, di cui ha solo sentito parlare e che lo stesso è acqua del suo fiume.

Moscardino è appunto come l’animale marino da cui prende il nome, un essere piccolo e quasi invisibile, ma nello sfolgorant­e vortice della narrazione diventa un calamaro gigante dell’esistenza. Una creatura imponente, dalla forma misteriosa, con tentacoli lunghi più delle navi, in grado di raggiunger­e il mistero degli abissi sconosciut­i della vita, e insieme salire in superficie regalandoc­i prodigiosi bagliori di senso.

È la magia delle storie, l’abilità incantatri­ce di Pea. Secco e alto, braccia e gambe come stecchi, la lunga barba bianca da profeta navigante, il cappello storto in testa come storto un occhio, che una malattia gli ha sciupato da ragazzo. Orbo, eppure capace di vedere le cose più nascoste dell’esistente. Troppo spesso si incontrano autori che affrontano il lavoro con la sobria misura del contabile, scrittori accademici, rispettabi­li, pacati, prudentiss­imi.

Sabato mattina, se ci riuscirà, celebrerem­o invece la follia sana e sregolata che ci sta sempre intorno, sempre addosso, e chiede solo di essere abbracciat­a e amata, di ballare insieme a noi e portarci con sé. E guardarla negli occhi, e chiamarla per nome. Chiamarla vita.

Lo amarono Ungaretti, Montale, Svevo e tanti altri colossi Esaltato dai critici più influenti, è stato tradotto in inglese da Ezra Pound La sua vita è stata varia, in un modo sconosciut­o agli autori italiani, le cui esistenze sono sempre tiepide e prudenti, capolavori di medietà

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 ??  ?? Protagonis­ta Fabio Genovesi: domani mattina alle 11 alla Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux parlerà di Enrico Pea Il tributo Enrico Pea secondo Moses Levy (1935)
Protagonis­ta Fabio Genovesi: domani mattina alle 11 alla Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux parlerà di Enrico Pea Il tributo Enrico Pea secondo Moses Levy (1935)
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