Corriere Fiorentino

QUEI SILENZI (CHE PARLANO)

- Di Paolo Armaroli

Ieri, al fiorentino Istituto degl’Innocenti, Sergio Mattarella è stato salutato con un lungo, caloroso applauso. Il fatto non fa notizia perché ormai è quello che un po’ accade dappertutt­o. La cosa stupefacen­te è invece un’altra.

Gli astanti gli hanno tributato applausi altrettant­o calorosi anche quando il presidente della Repubblica ha guadagnato alla svelta l’uscita. Certo, ha lodato il benemerito Istituto di Piazza della Santissima Annunziata. Ed è apparso emozionato dopo aver ascoltato l’Inno di Mameli, da non molto Inno ufficiale della Repubblica dopo essere stato provvisori­o dal 1946 fino a ieri, messo in bocca a bambini svegli. Le speranze d’Italia, se non ci illudiamo. Ma dopo queste sue parole, sentite ma un po’ di circostanz­a, se l’è cavata come Alcide De Gasperi. Dopo aver detto quel che aveva da dire, non ha avuto null’altro da aggiungere.

Mattarella ieri si è trovato davanti a un bivio. Poteva allargare a dismisura la fisarmonic­a delle esternazio­ni o chiuderla ermeticame­nte. Ha optato per questo secondo corno del dilemma. Davanti a un’Italia ai minimi storici con la Francia e in presenza di un inusitato attacco di esponenti di prima fila del governo alle autorità indipenden­ti, a cominciare dalla Banca d’Italia, il presidente della Repubblica ha ritenuto opportuno abbracciar­e la massima secondo cui il silenzio è d’oro. Ma ci sono dei silenzi che sono, per così dire, cantatori. Silenzi che ci fanno capire che la febbre nel Paese è alta, e a volte la si abbassa più che con le parole, con i silenzi.

D’altra parte, Mattarella avrebbe potuto far propria la collaudata scuola democristi­ana, che da un certo punto di vista — piaccia o no — è stata una grande scuola. Tanto per non fare nomi e cognomi, alti papaveri del partito di maggioranz­a relativa del tempo che fu, come Tommaso Morlini e Arnaldo Forlani, erano in grado di parlare per ore senza dire mai niente. Di proposito, si capisce. Per la disperazio­ne dei giornalist­i, che non sapevano come interpreta­re quel diluvio di parole in libertà. Ma allora perché quell’applauso finale agl’Innocenti? Perché, come sosteneva Ettore Petrolini, quando uno è bravo, anche se non dice niente è sempre bravo.

Dopo che Mattarella ha parlato del benemerito Istituto, come Leo Longanesi parlava dell’elefante quando non intendeva esporsi, ci è tornata alla mente una storiella dei primi anni Cinquanta. In occasione di una delle solite crisi ministeria­li, i cronisti chiesero lumi all’allora segretario politico della Dc, Attilio Piccioni. Che non si fece pregare. Allargò le braccia e pronunciò un sibillino «Mah». Ma subito dopo, pentitosi di tanto ardire, tornò sui suoi passi e dichiarò: «Sia chiaro, io non ho detto niente». Diciamocel­a tutta: un po’ di delusione c’è stata. Come ha fatto altre volte, Mattarella avrebbe potuto parlare a nuora perché la suocera — o, per meglio dire, le due suocere che ci troviamo pro tempore sul gobbo — intenda. E invece nulla di nulla. Muto come un pesce.

Alla fine, solo il sindaco Dario Nardella è apparso felice di esistere. Dopo tutto, il capo dello Stato — mica un Pinco Palla qualsiasi — si è scomodato a venire da Roma solo per inaugurare la sua linea 2 della tramvia.

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