QUEI SILENZI (CHE PARLANO)
Ieri, al fiorentino Istituto degl’Innocenti, Sergio Mattarella è stato salutato con un lungo, caloroso applauso. Il fatto non fa notizia perché ormai è quello che un po’ accade dappertutto. La cosa stupefacente è invece un’altra.
Gli astanti gli hanno tributato applausi altrettanto calorosi anche quando il presidente della Repubblica ha guadagnato alla svelta l’uscita. Certo, ha lodato il benemerito Istituto di Piazza della Santissima Annunziata. Ed è apparso emozionato dopo aver ascoltato l’Inno di Mameli, da non molto Inno ufficiale della Repubblica dopo essere stato provvisorio dal 1946 fino a ieri, messo in bocca a bambini svegli. Le speranze d’Italia, se non ci illudiamo. Ma dopo queste sue parole, sentite ma un po’ di circostanza, se l’è cavata come Alcide De Gasperi. Dopo aver detto quel che aveva da dire, non ha avuto null’altro da aggiungere.
Mattarella ieri si è trovato davanti a un bivio. Poteva allargare a dismisura la fisarmonica delle esternazioni o chiuderla ermeticamente. Ha optato per questo secondo corno del dilemma. Davanti a un’Italia ai minimi storici con la Francia e in presenza di un inusitato attacco di esponenti di prima fila del governo alle autorità indipendenti, a cominciare dalla Banca d’Italia, il presidente della Repubblica ha ritenuto opportuno abbracciare la massima secondo cui il silenzio è d’oro. Ma ci sono dei silenzi che sono, per così dire, cantatori. Silenzi che ci fanno capire che la febbre nel Paese è alta, e a volte la si abbassa più che con le parole, con i silenzi.
D’altra parte, Mattarella avrebbe potuto far propria la collaudata scuola democristiana, che da un certo punto di vista — piaccia o no — è stata una grande scuola. Tanto per non fare nomi e cognomi, alti papaveri del partito di maggioranza relativa del tempo che fu, come Tommaso Morlini e Arnaldo Forlani, erano in grado di parlare per ore senza dire mai niente. Di proposito, si capisce. Per la disperazione dei giornalisti, che non sapevano come interpretare quel diluvio di parole in libertà. Ma allora perché quell’applauso finale agl’Innocenti? Perché, come sosteneva Ettore Petrolini, quando uno è bravo, anche se non dice niente è sempre bravo.
Dopo che Mattarella ha parlato del benemerito Istituto, come Leo Longanesi parlava dell’elefante quando non intendeva esporsi, ci è tornata alla mente una storiella dei primi anni Cinquanta. In occasione di una delle solite crisi ministeriali, i cronisti chiesero lumi all’allora segretario politico della Dc, Attilio Piccioni. Che non si fece pregare. Allargò le braccia e pronunciò un sibillino «Mah». Ma subito dopo, pentitosi di tanto ardire, tornò sui suoi passi e dichiarò: «Sia chiaro, io non ho detto niente». Diciamocela tutta: un po’ di delusione c’è stata. Come ha fatto altre volte, Mattarella avrebbe potuto parlare a nuora perché la suocera — o, per meglio dire, le due suocere che ci troviamo pro tempore sul gobbo — intenda. E invece nulla di nulla. Muto come un pesce.
Alla fine, solo il sindaco Dario Nardella è apparso felice di esistere. Dopo tutto, il capo dello Stato — mica un Pinco Palla qualsiasi — si è scomodato a venire da Roma solo per inaugurare la sua linea 2 della tramvia.
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