OSCURITÀ E LUCE NELLA TERRA DI MEZZO
Dire che la tramvia si vedeva anche quando ancora non esisteva, pare scontato: si chieda a un automobilista, se si era accorto della sua presenza mentre c’erano i cantieri.
Quello che intendo dicendo che «si vedeva» è però diverso, e non ha a che fare col solito spirito fiorentino, eufemisticamente definibile «critico». Parlo di qualcosa che si respirava nell’aria, e di cui ancora si sente il profumo ora che ogni cosa si è coagulata in forma di binari e vagoni e pennoni con orridi scudetti gigliati. Ne ebbi per la prima volta nozione in piazza Dalmazia, luogo che da sempre mi proiettava verso una Firenze ruvidamente urbana, aspra e orgogliosamente periferica. Ci sono passato qualche settimana prima dell’apertura della linea per Careggi, assieme a un’amica di Roma, in passato residente a Firenze, la quale, venendo dalla scena punk, apprezza ancor più di me certe atmosfere; come abbiamo girato l’angolo, è sbottata in un «Ma che so’ arrivate ‘e brigate der decoro?». Ora, sarà stata l’atmosfera di quella serata in particolare, ma davvero sembrava di stare a Saint-Germain-des-Prés. Era qualcosa che andava oltre l’abusato termine di «gentrificazione»: l’atmosfera, la luce, l’aria appunto che si respirava, erano diventate quelle di un centro città. Certo, bastava dare un’occhiata alle vetrine per capire che si era, ancora, in piazza Dalmazia e non nel VI arrondissement, ma qualcosa era cambiato, e in modo così netto da apparire paradossale: si sa che il valore di una zona aumenta quando è ben collegata via rotaia, ma qua sembrava proprio che gli abitanti si stessero preparando da tempo a tale virata, anzi che la stessero già mettendo in scena a beneficio di noi passanti. Se ciò avveniva già con una linea che era, di fatto, il prolungamento della prima, cosa sarebbe potuto accadere con la 2? La risposta me l’avrebbe data una coppia di amici, residente a Novoli, qualche mese più tardi, ovvero poche sere fa. Durante i prodromi della cena, tra un prosecco e uno stuzzichino nella loro terrazza novolese, a uno di loro scappa un «…E poi qua è così comodo». L’ho guardato. Lui ha sentito il peso del mio sguardo: «Che c’è?», mi ha chiesto. «Ma scusa — ho detto io — non eri tu quello che si lamentava sempre di quant’era scomodo? Mi dicevi sempre: beato te che stai in centro!» Lui ha riso: «Io? Ma va’ia, stacci te in mezzo ai turisti!».
Qualcosa stava decisamente accadendo: la tramvia ancora non era partita, ma chi abitava nei suoi pressi aveva già mutato atteggiamento. Mi sono appoggiato sorridendo alla loro ringhiera e il mio sguardo ha incontrato le forme sghembe del Palazzo di Giustizia. Ora, io le ho sempre apprezzate, proprio per la loro sfacciata ma sincera as- surdità, che pare atta a evocare tutti quei sentimenti, dal kafkiano al distopico, che mai e poi mai un luogo deputato all’amministrazione della giustizia dovrebbe manifestare — e che però, a volte e purtroppo, esprime nei fatti. Adesso che era collegata al centro le forme rimanevano, ma non era più uno di quegli isolati castelli del delirio sullo sfondo dei quadri di Bosch: era parte di Firenze, piacesse o meno. E che dire di Mordor, ovvero del plesso universitario? Qualcuno si sarebbe ancora azzardato a chiamarlo con quel nomignolo, adesso che era a ogni effetto collegato alla città? «Non si entra con facilità a Mordor», diceva Boromir, e dunque figurarsi se nella terra di Sauron ci potevano essere tramvie. Capivo così, guardando i miei amici mentre portavano via le bottiglie vuote di prosecco e passavano al rosé, lì nel loro Novoli rooftop (salito di valore di un buon 10%), che la questione, nel caso della linea 2, va oltre il valore, la comodità o i tempi di percorrenza; per dirla con Wittgenstein, è proprio una questione di senso: improvvisamente una intera parte di città acquista un significato che non aveva, come quando un allacciamento elettrico viene a scacciare il buio e la foschia e a regalare un nuovo volto alle cose — e alle persone che le guardano.