IL FEDERALISMO DELLA RESPONSABILITÀ
Caro direttore, ormai la discussione pubblica è sparita, cancellata da una chiacchiera da bar sport insopportabile fatta di berci belluini, turpiloqui e amenità varie.
❞
Un’arena dominata da incompetenti invidiosi e narcisi irresponsabili con un Parlamento, massima aula dove si forma la coscienza del Paese, ridotto al regno del voto di fiducia che tutto strozza.
E allora eccoci assordati da nuovi slogan che dovrebbero servirci da grimaldelli per spiegare qualcosa che non capiamo e invece confondono ancora di più i cervelli. Sovranismo contro globalizzazione, populismo contro élite, chiusura contro apertura.
L’unico risultato certo è che siamo davanti tra le altre cose alla rinascita del partito dell’assistenzialismo, della spesa pubblica, di «pubblico è bello», delle statalizzazioni, di una cultura, se così si può chiamare, che diffida dell’impresa e del mercato. E tutto ciò è un bel paradosso a cent’anni dal lancio dell’«Appello ai liberi e forti di Don Sturzo», forse l’unico politico italiano ad aver coniugato con qualche successo liberalismo e popolarismo. Alla base di questo patrimonio di cultura politica, l’autonomia e difesa del cittadino non certo visto come atomo senza legami, ma persona da cui dipartono tutte le aggregazioni sociali, a cominciare dalla famiglia, che non stanno su piani gerarchicamente superiori, ma appunto incardinate su quel cittadino-persona, fino ad arrivare allo «stato, organizzazione di cui diffidare», da tenere sempre d’occhio e da scrivere per questo con la «s» minuscola. Contro un potere accentratore burocratico, contro un uniformismo legislativo, che tutto omologa, per di più in un Paese dalle forti differenze locali come l’Italia, ecco la proposta del federalismo. Solo rendendo responsabili le diverse comunità del proprio destino si poteva sperare di trovare una soluzione all’annosa questione meridionale. Non a caso era questo il sogno di quel Risorgimento altro dai Cavour e dai Savoia, per intenderci quello dei Gioberti, dei Cattaneo il cui pensiero partiva dalla necessità di tenere uniti il rispetto della diversità ed il principio di responsabilità. E poi la difesa della libertà educativa contro il monopolio statale; il ruolo dell’impresa responsabile, attenta ai doveri sociali, ma liberata da una burocrazia inutile ed incompetente. Un’azione collettiva quindi ispirata alla ragione, al buon senso, all’equilibrio, al principio di realtà di chi sa che il mondo non è perfetto e mai lo sarà, un agire non accecato dall’invidia e dall’odio di classe, ma ispirato invece alla responsabilità ed all’impegno in un mondo che è tanto facile distruggere, perché se non è certo che la politica faccia il bene, di sicuro può fare molto male.
Ma l’Italia del dopoguerra era un Paese attraversato da lacerazioni devastanti, internazionali, ideologiche, sociali e geografiche. Asperità che costringevano i governi a compromessi difficili con in testa un unico scopo. La pace nel segno della libertà. Bisognerà aspettare quarant’anni per sentire riparlare di federalismo, di Stato minimo.
Ci vorranno i ragionamenti di Miglio a supportare la rozzezza della Lega di Bossi, poi il crollo del muro di Berlino, la fine del comunismo, la vittoria dell’imprenditore Berlusconi, per altro un oligopolista pop circondato da nani e ballerine, ad offrire al confronto idee nuove, ma la reazione fu terribile. In nome di un astratto e puro liberalismo, scoperto per altro fuori tempo massimo, si assistette al rifiuto totale di quelle proposte che certo andavano ripulite; così non fu, salvo poi cedere alle sirene del mito della globalizzazione e del progresso che tutto risolve e fino a quando la crisi economica mondiale iniziata nel 2008, trasformatasi in crisi di fiducia globale, ha rotto in modo definitivo il giocattolo facendo entrare in scena attori nuovi. Adesso i lamenti, le nostalgie e i rimpianti servono a poco. Quello che ci sta davanti, lo spettacolo a cui assistiamo non nasce oggi, è il prodotto della nostra storia, della storia d’Italia, di cui tutti siamo responsabili, in primo luogo le classi dirigenti, i nostri politici che spesso sembrano arrivati da Marte, ormai ignoranti del passato quanto del presente, pronti però sempre a scaricare colpe su fantomatici altri. Quello che è sicuro è che se vogliamo rinascere e non solo sopravvivere, dobbiamo ricostruire un tessuto culturale, un humus che permetta la crescita, non solo economica, della comunità. Questo era il fine dei padri nobili della patria.
Idea armoniosa un po’ ingenua e polverosa si dirà, specialmente in un tempo 4.0, dominato dalla velocità, dalla globalizzazione, dall’high tech, dal web, dall’intelligenza artificiale. Non è così. Non esiste velocità senza radici, non esiste governo della complessità senza visione.
Passi indietro
Valorizzare il cittadino-persona: invece è rinato il partito dell’assistenzialismo, della spesa pubblica, del «pubblico è bello»; cioè di una cultura, se così si può chiamare, che diffida dell’impresa e del mercato