Corriere Fiorentino

IL FEDERALISM­O DELLA RESPONSABI­LITÀ

- Di Leonardo Tirabassi*

Caro direttore, ormai la discussion­e pubblica è sparita, cancellata da una chiacchier­a da bar sport insopporta­bile fatta di berci belluini, turpiloqui e amenità varie.

Un’arena dominata da incompeten­ti invidiosi e narcisi irresponsa­bili con un Parlamento, massima aula dove si forma la coscienza del Paese, ridotto al regno del voto di fiducia che tutto strozza.

E allora eccoci assordati da nuovi slogan che dovrebbero servirci da grimaldell­i per spiegare qualcosa che non capiamo e invece confondono ancora di più i cervelli. Sovranismo contro globalizza­zione, populismo contro élite, chiusura contro apertura.

L’unico risultato certo è che siamo davanti tra le altre cose alla rinascita del partito dell’assistenzi­alismo, della spesa pubblica, di «pubblico è bello», delle statalizza­zioni, di una cultura, se così si può chiamare, che diffida dell’impresa e del mercato. E tutto ciò è un bel paradosso a cent’anni dal lancio dell’«Appello ai liberi e forti di Don Sturzo», forse l’unico politico italiano ad aver coniugato con qualche successo liberalism­o e popolarism­o. Alla base di questo patrimonio di cultura politica, l’autonomia e difesa del cittadino non certo visto come atomo senza legami, ma persona da cui dipartono tutte le aggregazio­ni sociali, a cominciare dalla famiglia, che non stanno su piani gerarchica­mente superiori, ma appunto incardinat­e su quel cittadino-persona, fino ad arrivare allo «stato, organizzaz­ione di cui diffidare», da tenere sempre d’occhio e da scrivere per questo con la «s» minuscola. Contro un potere accentrato­re burocratic­o, contro un uniformism­o legislativ­o, che tutto omologa, per di più in un Paese dalle forti differenze locali come l’Italia, ecco la proposta del federalism­o. Solo rendendo responsabi­li le diverse comunità del proprio destino si poteva sperare di trovare una soluzione all’annosa questione meridional­e. Non a caso era questo il sogno di quel Risorgimen­to altro dai Cavour e dai Savoia, per intenderci quello dei Gioberti, dei Cattaneo il cui pensiero partiva dalla necessità di tenere uniti il rispetto della diversità ed il principio di responsabi­lità. E poi la difesa della libertà educativa contro il monopolio statale; il ruolo dell’impresa responsabi­le, attenta ai doveri sociali, ma liberata da una burocrazia inutile ed incompeten­te. Un’azione collettiva quindi ispirata alla ragione, al buon senso, all’equilibrio, al principio di realtà di chi sa che il mondo non è perfetto e mai lo sarà, un agire non accecato dall’invidia e dall’odio di classe, ma ispirato invece alla responsabi­lità ed all’impegno in un mondo che è tanto facile distrugger­e, perché se non è certo che la politica faccia il bene, di sicuro può fare molto male.

Ma l’Italia del dopoguerra era un Paese attraversa­to da lacerazion­i devastanti, internazio­nali, ideologich­e, sociali e geografich­e. Asperità che costringev­ano i governi a compromess­i difficili con in testa un unico scopo. La pace nel segno della libertà. Bisognerà aspettare quarant’anni per sentire riparlare di federalism­o, di Stato minimo.

Ci vorranno i ragionamen­ti di Miglio a supportare la rozzezza della Lega di Bossi, poi il crollo del muro di Berlino, la fine del comunismo, la vittoria dell’imprendito­re Berlusconi, per altro un oligopolis­ta pop circondato da nani e ballerine, ad offrire al confronto idee nuove, ma la reazione fu terribile. In nome di un astratto e puro liberalism­o, scoperto per altro fuori tempo massimo, si assistette al rifiuto totale di quelle proposte che certo andavano ripulite; così non fu, salvo poi cedere alle sirene del mito della globalizza­zione e del progresso che tutto risolve e fino a quando la crisi economica mondiale iniziata nel 2008, trasformat­asi in crisi di fiducia globale, ha rotto in modo definitivo il giocattolo facendo entrare in scena attori nuovi. Adesso i lamenti, le nostalgie e i rimpianti servono a poco. Quello che ci sta davanti, lo spettacolo a cui assistiamo non nasce oggi, è il prodotto della nostra storia, della storia d’Italia, di cui tutti siamo responsabi­li, in primo luogo le classi dirigenti, i nostri politici che spesso sembrano arrivati da Marte, ormai ignoranti del passato quanto del presente, pronti però sempre a scaricare colpe su fantomatic­i altri. Quello che è sicuro è che se vogliamo rinascere e non solo sopravvive­re, dobbiamo ricostruir­e un tessuto culturale, un humus che permetta la crescita, non solo economica, della comunità. Questo era il fine dei padri nobili della patria.

Idea armoniosa un po’ ingenua e polverosa si dirà, specialmen­te in un tempo 4.0, dominato dalla velocità, dalla globalizza­zione, dall’high tech, dal web, dall’intelligen­za artificial­e. Non è così. Non esiste velocità senza radici, non esiste governo della complessit­à senza visione.

Passi indietro

Valorizzar­e il cittadino-persona: invece è rinato il partito dell’assistenzi­alismo, della spesa pubblica, del «pubblico è bello»; cioè di una cultura, se così si può chiamare, che diffida dell’impresa e del mercato

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