I Magi di Palazzo Medici e le sorti dell’intero mondo
Però questa è la Cavalcata dei Magi. E non è solo bellissima, è anche storia per immagini: ovvero la storia di quello che è successo e la storia di quello che avrebbe potuto succedere. Osserva le persone rappresentate sullo sfondo di castelli, scene di caccia e piante fantastiche. Non assomigliano ai tre re o saggi che vennero da Oriente per adorare Gesù bambino. Su un cavallo bianco si riconosce Lorenzo il Magnifico, che precede i suoi familiari. Ci sono anche i signori di Milano e quelli di Rimini. È un corteo, ma non ha niente a che vedere con il giorno dell’Epifania. Piuttosto richiama i principi e le autorità ecclesiastiche che nella primavera del 1458 lasciarono Firenze, direzione Mantova, per un progetto di crociata contro i turchi. Però che ci fanno dietro i filosofi? Alcuni di loro sembrano venire davvero da Oriente, anche se non sono i Magi. E quell’altra figura su un cavallo bianco: non sarà l’imperatore di Costantinopoli? Insomma, c’è un’altra storia in questi affreschi. La storia di quando a Firenze, per qualche tempo, si
incrociarono i destini dell’umanità. 26 febbraio 1439: sulle sponde dell’Arno si insedia il Concilio che dovrà riunire Oriente e Occidente, Roma e Bisanzio, le due chiese separate da secoli. A Firenze arrivano il papa Eugenio IV e l’imperatore Giovanni Paleologo VIII. Per quest’ultimo Firenze ha approntato un’accoglienza spettacolare. Peccato che un violento acquazzone rovini il momento più solenne e getti lo scompiglio tra i prelati. Povero imperatore, malamente al riparo sotto un baldacchino, per quelle strade di melma. Fatto sta che i lavori cominciano e proseguono, malgrado le controversie dottrinali, le sottigliezze teologiche, gli interessi inconfessabili. Si ricuciono divergenze e diffidenze sul primato del Pontefice, si va oltre persino la più tremenda delle questioni, quella che si riassume in una parola latina — Filioque — anzi, in una congiunzione che da sempre divide cattolici e ortodossi. Lo Spirito Santo procede solo dal Padre o anche dal Figlio? Francamente, sia detta da ignorante, non una questione su cui scannarsi per secoli. Non ci si ferma nemmeno di fronte alla morte improvvisa del patriarca di Costantinopoli: lo seppelliscono nella stessa chiesa del Concilio — Santa Maria Novella — come a non voler perdere tempo. E il tempo in effetti incalza, con un’urgenza che esula dalle dispute sulle Sacre Scritture. Mentre si discute, i turchi avanzano, dell’impero bizantino rimane poca cosa. Salvarsi sarà possibile solo con la cristianità di nuovo riunita. E il 6 luglio, finalmente, si può dare al mondo il formidabile annuncio. Laetentur coeli, che i cieli si rallegrino. Lo scisma si è ricomposto. Bisanzio e Roma, le chiese di Oriente e di Occidente, d’ora in avanti percorreranno la stessa strada. Tutto questo è storia, caro editore. Non mi sono inventato niente. Solo che poi il verso è stato un altro. Ci sono eventi che irrompono con la forza delle cose ultime e decisive e poi svaniscono come un sogno. Sono veramente accadute? Il sipario cala sul Concilio. I fiorentini riprendono la vita di sempre, nelle loro abitazioni e nelle loro botteghe. I bizantini, invece, al ritorno scoprono di non poter digerire o far digerire quanto a Firenze è stato deciso. Meglio il turbante degli ottomani che la tiara del Papa. Pochi anni ancora e Costantinopoli cadrà. Non ci sarà più Costantinopoli, ma Istanbul. Un altro impero, un altro mondo. Uno spartiacque della storia, come la scoperta dell’America. Ma quale altro corso avrebbero potuto prendere gli eventi? E cosa ne sarebbe stato allora di Costantinopoli? E cristiani e musulmani avrebbero trovato altre strade, altri equilibri, invece di darsele di santa ragione all’infinito? Ho solo domande, niente risposte. Mi porto dietro solo le forme e i colori della cappella di Benozzo. E i miei se, i miei ma. Però non è vero che niente sia rimasto di quei giorni. Anche senza dar credito alle svariate leggende. Per esempio che l’arista abbia cominciato a chiamarsi così per il cardinale greco Bessarione, che così elogiò un bel pezzo di lombata arrosto: aristos, ovvero la migliore, la più buona. E che il vin santo — sì il vin santo con cui hai visto cimentarmi a Pisa assieme ai cantucci — abbia questo nome perché Bessarione, sempre lui, ebbe modo di paragonarlo al vino di Santorini. Niente a che vedere, sia detto con tutto il rispetto. Storie così, che ignorano ciò che davvero conta. Bessarione non fu un don Abbondio bizantino, concentrato sui piaceri della tavola, ma semmai l’ultimo grande bizantino. Lui e gli altri con lui portarono in Occidente tesori immensi: i filosofi greci, i mistici bizantini, la sapienza di secoli. Molti di quei codici un giorno troveranno posto a Venezia. Però quanta linfa per la Firenze del futuro, e quanta parte nel Rinascimento della mia città. In questo davvero città universale, ponte tra Oriente e Occidente. Giusto fermarsi qui, caro editore. Giusto dare un’occhiata. E indugiare su una storia che non viene più raccontata. Quella dei bizantini che un giorno giunsero a Firenze, portandosi nel cuore lo splendore del Bosforo e di Santa Sofia. Senza aspettarsi, presumo, né il Ponte Vecchio né il campanile di Giotto. Quando ripartirono forse si voltarono indietro, per salutare la città che li aveva accolti. Forse nella loro nostalgia per Costantinopoli c’era già la premonizione di quanto stava per succedere e l’idea se non di un’altra patria almeno di un esilio meno doloroso. A Firenze, mi piace pensare: l’Atene di Italia.
(14. Continua)