La locanda di Mozart, con una finestra sulla notte
Oltre il negozio di paramenti liturgici e quello dei cioccolatini Lindt, in questi metri quadri dove si intrecciano le lingue del mondo e dove imbattersi in un fiorentino è un’impresa. Dentro mi risuona un’altra frase del buon Carlo Lorenzini, che a me proprio non viene di chiamare Collodi, perché è come Carlo Lorenzini che andava in giro per la mia città e la raccontava: Firenze, avanti la sua decadenza, poteva chiamarsi una casa grandissima, nella quale tutti gli inquilini si conoscevano o di vista o di saluto o di nome. Di quale decadenza parla? Noi fiorentini, temo, siamo sempre stati così, convinti che il peggio è alle porte dopo che il meglio si è già consumato. Il passato allora è una crisalide che non sa farsi farfalla; il presente un pantano; il futuro solo chiacchiera. E non so se un tempo siamo stati casa grandissima in cui tutti ci si conosceva. Ma non riesco a immaginarmi niente che più neghi quell’idea di piazza del Duomo oggi (...). E rimpiango le vecchie latterie dove si faceva colazione col caffellatte, i salumai con i prosciutti appesi sopra il banco, i chioschi dei tifosi eterna accademia su miserie e imprese del calcio, i bar dove si sgualciva il quotidiano del giorno, sacramentando sui governi ed esercitandosi allo sberleffo. Mentre il mondo scorreva a lato e sembrava fare meno male. Rimpiango la Firenze di quando ero ragazzo, la Firenze delle pagine di Pier Vittorio Tondelli, dei libri sulla scena musicale di Bruno Casini, del Café Voltaire e del Salt Peanuts, locali che erano un pezzo di Parigi o forse di New York sotto il Cupolone, il jazz come da nessuna altra parte. Rimpiango persino la città bottegaia. Magari lo fosse ancora, così riavrei indietro i miei negozi di dischi, le mie librerie. Sì, proprio quella città, ripiegata su se stessa, interessata
solo alla propria contabilità, timorosa e allergica a ogni vento di novità. Città, sosteneva Giovanni Papini, cui se non l’intento manca comunque il coraggio. Lui che a dire il vero avrebbe buttato in Arno anche i professori e gli eruditi, non solo i bottegai. Be’, diciamo che rimpiango persino loro, i professori e gli eruditi. Non mi dispiacerebbe che i cultori di Dante abbondassero come a Parma quelli di Verdi. Farei il tifo perché ci si gonfiasse il petto per l’Accademia della Crusca, che vigila sulla nostra lingua e che è nostro vanto, non solo per la Fiorentina quando le suona alla Juve, che poi succederà una volta ogni dieci anni. E mentre rimpiango mi tengo stretto persino il mio barbiere, perché la mia Firenze è anche il mio barbiere di sempre, dove ho cominciato con due cuscini sul sedile e ora ho i capelli bianchi. Lo è più di questa piazza del Duomo, il mio barbiere, dove trovo sempre qualche omino che non si deve tagliare i capelli, ma è lì in attesa che il pianeta faccia un altro giro e nel frattempo discetta del più e del meno, maledice Berlusconi che non è più al governo ma non importa, fischia alle signore che passano, si istruisce sulle pagine del Vernacoliere. A volte ce n’è uno che sta sull’uscio e pare dirigere il traffico. Il mio barbiere, che si scompiscia dalle risate se qualcuno lo chiama hairdresser e che è poco che ha tirato giù il calendario delle donnine nude, in uno spasmo di politically correct. L’altro giorno, a proposito dell’eloquio cittadino, mi raccontava di un pappagallo che di nome fa Alfredo: «Tira delle madonne che neanche un cristiano». Ovvio, un cristiano fiorentino. Poi ha riposto le forbici, mi ha sistemato un ciuffo col pollice e si è tirato indietro. Pareva Michelangelo che contemplava il suo capolavoro: «Bellino, stasera tu trombi». «Di sicuro». «Di sicuro anche i paperi». La mia Firenze ha molto a che vedere con il mio barbiere e con la nostalgia che respiro ora. Ha un problema che peraltro è un doppio problema: non essere più come una volta e allo stesso tempo aver smesso di sognare di essere altro, come in quel passato glorioso che fu presente di idee e progetti arditi. Doppio problema, doppia condanna: e il nuovo che non solo avanza, dilaga. Senza idee, senza progetti, appunto. Volto le spalle al Duomo. Un giorno di febbraio o novembre, bassa stagione per il turismo, proverò a tornare la mattina molto presto. All’alba, se ci riuscirò. Così forse ce l’avrò tutto per me. Solo pochi metri più avanti, verso la stazione di Santa Maria Novella, mi sorprende una targa che non avevo mai visto prima. Deve esserci da poco, si capisce dal marmo ancora candido. Segnala che un tempo qui c’era la locanda dell’Aquila Nera. Il 30 marzo 1770, dopo aver attraversato in carrozza gli Appennini, vi prese alloggio Mozart. Aveva quattordici anni, era il suo primo viaggio in Italia, insieme al padre Leopold. Una buona sistemazione per il Divin Fanciullo, che nei giorni successivi si presentò alla corte di Pietro Leopoldo, preceduto dalla sua fama. Quel giorno si esibì per qualcosa come cinque ore. Eppure io preferisco immaginarmelo in questa locanda, magari di notte, affacciato alla finestra. Una qualche melodia a risuonare dentro e fuori quel silenzio che prima o poi proverò a cogliere sotto il Duomo. Mozart, come altri grandissimi della musica. Pëtr Il’ic Cajkovskij, per esempio, che a Firenze arrivò per amore di una donna : anche lei una Nadežda, come la ragazza nubiana del Cimitero degli Inglesi — e fece vita schiva, in una villa sul viale dei Colli, dove non mancava il pianoforte a coda. O come Franz Liszt, anche lui sospinto a Firenze dalla risacca delle passioni, ma per niente disposto a chiudersi in casa. Con la contessa Marie d’Agoult, più anziana di sei anni e già sposata, si smarrì tra le statue di Michelangelo alle Cappelle Medicee, passeggiò sui lungarni, fece notte ai balli degli aristocratici. Un giorno si presentò al Teatro del Cocomero, oggi Teatro Niccolini, per suonare l’ouverture del Flauto magico. Ovvero ancora Mozart, la sua magia a Firenze. Mozart e quella lettera che in quel 1770 inviò a Salisburgo. A Firenze, diceva, si può dolcemente vivere e morire. Chissà se un genio della musica riesce a vedere in modo diverso una città, grazie a uno sguardo affinato dall’orecchio. La Firenze di Mozart e la mia Firenze. La Firenze del silenzio — anche la musica a suo modo una forma di silenzio — e la Firenze del rumore. Troppi pensieri, caro editore, in questi pochi minuti in piazza del Duomo. Troppi nodi irrisolti. Dovremmo fermarci e discuterne per bene. Oppure prendere e proseguire. Via dalla pazza folla, per quanto possibile.
Sensibilità
Chissà se un genio della musica riesce a vedere in modo diverso una città, grazie a uno sguardo affinato dall’orecchio
16. Continua