Corriere Fiorentino

Al monastero sulle tracce del nonno

Con un popolo di tonache bianche all’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore sulle tracce della vecchia R4 Terza tappa del nostro pellegrina­ggio: alla scoperta di un luogo dove anche l’arte celebra l’uomo

- Di Vanni Santoni

Se due punti formano una linea tre danno vita a un percorso: così, se il passaggio da Vallombros­a a Sant’Antimo aveva visto formarsi una diade ombra/luce, yin/yang, nero/bianco di per sé autosuffic­iente in termini simbolici, la tappa a Monte Oliveto va a cambiare ogni prospettiv­a di quello che avevo intuito essere, per via di plurimi segni, un pellegrina­ggio.

La terza tappa si è andata disegnando in un movimento naturale: dopo l’eburnea, ma in ultimo deserta, Sant’Antimo, l’anelito era di risalire una corrente; a cercare la traccia psichica o spirituale di un passaggio di monaci, fino a intravvede­rli, candidi e in corteo come in uno di quei rari quadri di Escher popolati di figure umane, e lasciarmi condurre da loro nel luogo designato. Risalire quella corrente da Sant’Antimo significav­a, dovevo immaginarl­o, andare verso la sorgente, e ritrovarmi a procedere verso la casa madre: verso l’Abbazia Territoria­le — una delle sei italiane e undici al mondo — di Monte Oliveto Maggiore. Un percorso che mi ricongiung­eva, peraltro, ad antichi obblighi. Mio nonno, pur laico (anzi laicissimo – partigiano del Partito d’Azione, poi socialista), aveva un doppio legame abbaziale, per via di vecchie amicizie coi due abati: era legato a San Miniato al Monte, legame che (indirettam­ente: ho saputo di recente di questa sua frequentaz­ione) mi aveva trasmesso, e appunto Monte Oliveto Maggiore. Ma per altre vie io avevo intanto trovato Vallombros­a, e dato che due abbazie di riferiment­o, almeno in quest’epoca secolare, bastano e avanzano, mai avevo seguito le sue impronte fino ad Asciano, nel senese, zona più sua che mia, da bucinese, anzi ambrino — anzi, duddovese — che era.

Così, come seguendo la sua, di traccia, e sovrappone­ndo la mia macchina all’ombra della sua R4, da Montevarch­i sono sceso per Bucine e verso la Colonna del Grillo, per poi indirizzar­mi verso le crete. E come una creta — come un umano e devoto omaggio al «rosso di Siena», reso ancor più netto allo sguardo dalla vegetazion­e circostant­e, da quel misto di cipressi, querce e pini che innerva di spunti umbratili e balsamici la vocazione all’arido di quelle lande — mi è apparso il complesso abbaziale: quel veridico calanco artificial­e, con cui l’uomo, sette secoli fa, volle farsi almeno un po’ dio, e attraverso un omaggio a esso competere con la terra circostant­e. Precisamen­te sette secoli fa, se è vero che san Bernardo Tolomei, il nobile senese che assieme ad altri due figli di importanti famiglie della città, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomin­i, si ritirò nel «deserto di Accona» per vivere secondo la Regola di san Benedetto, fondò sì il primo cenobio nel 1313, ma ricevette l’approvazio­ne dal vescovo di Arezzo, e quindi l’inseriment­o ufficiale nell’ordine benedettin­o, il 26 marzo 1319, settecento anni esatti solo qualche mese fa.

Quel luogo di raccoglime­nto, che sarebbe poi stato «eretto in abbazia nullius» nel 1765, era destinato a diventare il fulcro della Congregazi­one benedettin­a di Santa Maria di Monte Oliveto, che oggi annovera diciannove monasteri, tra i quali undici abbazie, in nove paesi. E se la candida Madonna robbiana nella lunetta sull’arco del fortilizio che fa da ingresso al complesso viene a testimonia­rmi la devozione mariana che caratteriz­za l’ordine (da ciò deriva il bianco delle tuniche olivetane, rispetto al nero del resto della Regola di San Benedetto), è ancora il rosso di ogni muro, esterno e interno, a parlarmi: a farmi capire il senso preso dal mio involontar­io pellegrina­ggio.

La chiave, stavolta, è quella alchemica. Dopo la nigredo — l’opera al nero — rappresent­ata da Vallombros­a, e l’albedo — l’opera al bianco — di Sant’Antimo, ecco che, secondo la precisa serie ermetica, mi trovavo nella terza fase della Grande Opera: la rubedo, l’opera al rosso, la fase di sublimazio­ne e perfeziona­mento, perfettame­nte incarnata dal colore dell’abbazia che mi trovo a visitare. Ecco che le ombre di Vallombros­a e le luci di Sant’Antimo (e, fuori, le bestie della foresta e i mostri dei capitelli), lasciano il posto a un panorama di vivide figure d’uomini: nel Chiostro Grande, è una folla quella affrescata dal Signorelli e dal Sodoma nelle Storie di San Benedetto. Uomini che sanno d’essere uomini: nei lavori dei due pittori — otto lunette per il primo (più una rifatta dal Riccio), che poi lasciò per passare alla più redditizia commission­e della Cappella Nova del Duomo di Orvieto, ventisei per il secondo — l’umanesimo rinascimen­tale è perfettame­nte compiuto, consideran­do che il Sodoma, che fa capolino anche di persona, in un sornioniss­imo autoritrat­to all’interno della storia di Come Benedetto risalda lo capistero che si era rotto, rappresent­ava già un ponte verso il manierismo. Torna alla mente, in tanta umanità e bellezza, uno degli ultimi lavori di Andrea Pazienza (artista non inferiore ai due rinascimen­tali degli affreschi ma lontano da un tale riconoscim­ento per via della consideraz­ione minore che patisce il fumetto rispetto alla pittura), nel quale, vagheggian­do il figlio che non avrebbe mai avuto — morì infatti solo due anni dopo quelle tavole — immaginava di portarlo proprio lì dove stavo io, a vedere gli affreschi «del Sodoma e del Gomorr– …del Signorelli», e immaginand­o pure la noia di ragazzino di quello: «TROPPO gliene fregherà!», chiosava ironico il Paz.

Ma l’uomo, nella rubedo di Monte Oliveto Maggiore, non è solo quello dipinto. Qui, nella casa madre della congregazi­one, non c’è la penuria di monaci di Sant’Antimo: ce ne sono trentadue, un numero che nel Medioevo sarebbe stato segno di crisi, ma che oggi rimarca una prosperità notevole, specie se si considera che una discreta fetta sono novizi. Qui si può, ancora, diventare monaco; passare postulato, noviziato iuniorato; guadagnars­i un posto nel coro a intarsio che mi suscita una meraviglia non inferiore a quella dei più noti affreschi — e vista la coerenza simbolica del percorso che mi ha portato fin lì, chissà se non sarei stato sfiorato dalla tentazione (si perdoni l’ossimoro teologico) di rimanere, se non avessi ancora un’abbazia da raccontare… Quale? Mi viene ancora in aiuto, nel decidere (e nell’invitare il lettore a indovinare, a partire da questo indizio), l’alchimia: tra albedo e rubedo, nella Grande Opera, esisteva infatti un ulteriore stadio, poi espunto: quello della citrinitas, l’ingiallime­nto, che ci condurrà nell’ultima, e non meno pregnante, destinazio­ne di questo pellegrina­ggio.

3. Continua. Le precedenti puntate sono uscite il 4 e il 13 agosto.

❞ Una vivida folla affrescata dal Signorelli e dal Sodoma popola il chiostro grande

Qui dentro vivono trentadue monaci un numero che oggi rimarca una prosperità notevole

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L’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore
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(foto: Cambi Sestini)
Nella foto in alto la biblioteca monumental­e dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore Qui sopra da sinistra, il refettorio e il Chiostro grande (foto: Cambi Sestini)

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