Corriere Fiorentino

Nel centro del centro, dove tutto è cominciato

- Di Paolo Ciampi

C’è il gruppo peruviano che da mesi si dà appuntamen­to qui, con la sua musica delle Ande e il cd venduto a dieci euro. C’è il venditore di aste per selfie e c’è la guida con la sua voce amplificat­a come per un corteo. (...) Piazza della Repubblica: mi affido alla solitudine che solitudine non è, perché in qualche modo concedo cittadinan­za anche agli estranei. Se non altro è questo che dovrebbe essere una piazza. Un luogo dove si incrociano i cammini, dove ci si incontra. Con buona pace delle piazze virtuali. I camminator­i, mi viene in mente, si tengono cara la parola strada e fanno bene. Ma non dovrebbero trascurare la parola piazza. Anche a sera, con una tappa che si conclude in qualche centro abitato: prima trovare il posto dove dormire, ma dopo la piazza. È con questo pensiero che mi siedo per qualche istante. Giusto qui, sul piedistall­o di questa colonna, dove tante volte ho dato appuntamen­to. Vediamoci alla colonna di piazza della Repubblica, proprio così. Magari, caro editore, anche noi fisseremo qui, quando capiterai a

Firenze. (...) Ti dirò: vediamoci alla colonna, che poi ci spostiamo a bere qualcosa. E poi toccherà a me proporti dove. Alla terrazza della Rinascente, con la sua vista mozzafiato? All’Hard Rock Cafe, che un tempo era il glorioso cinema Gambrinus, con sotto il seminterra­to dei biliardi, covo di biscazzier­i e tiratardi? Oppure alla Feltrinell­i Red, giusto dall’altro lato della piazza, dove un tempo c’era un altro cinema storico, l’Edison? Alla Red almeno si potrebbe bere con i libri intorno, però mi sa che non sei tipo per nessuno di questi posti. E nemmeno io. Meglio un qualche vinaio, da scegliere con cura, però. Nel frattempo ce ne staremmo per un po’ seduti, proprio sotto la colonna. A presidiare la piazza e ad ascoltare i suoi racconti: perché questo è sicuro, non c’è piazza che non abbia molto da raccontare. E sarai contento di sapere che questa non è una colonna come le altre. È qui, pensa, che si incrociava­no il cardo e il decumano, quando i romani decisero di fondare una colonia in queste paludi. Vicino c’era l’Arno, un punto dove il guado era più semplice. Due strade in perpendico­lo come per un accampamen­to di legionari: Firenze nasceva così. Col nome che evocava la gentile dea Flora, ma il tempio dedicato al dio Marte. Che non si sa bene dove fosse, forse dove oggi è il Battistero, ma che per Dante è la ragione stessa del carattere bellicoso dei fiorentini. Siamo nati così, insomma, con la guerra nel Dna. Bisogna farsene una ragione. No, non è una colonna come le altre: perché siamo al centro del centro, perché siamo esattament­e dove è cominciato tutto. Molti secoli più tardi i fiorentini le avrebbero dato un nome: la colonna della Dovizia o dell’Abbondanza. Di buon auspicio per la piazza dove ogni giorno si teneva il mercato. Sulla sommità spiccava una statua di Donatello, mentre sul fusto vennero fissati due ferri, che avevano a che vedere con le attività intorno. Uno reggeva la campana che suonava all’apertura e alla chiusura del mercato — un po’ come la Borsa di 130 131 Wall Street. L’altro due catene con collare per esporre al pubblico ludibrio i commercian­ti disonesti e i debitori insolventi. Sempre meglio, in ogni caso, di quanto era loro previsto all’altro mercato, quello alla Loggia del Porcellino. Ai malcapitat­i, a braghe calate, si batteva il sedere a ripetizion­e su una pietra, che ancora oggi si vede. La pietra dell’acculata, appunto, che rimanda a fiorenti e fiorentini modi di dire: non sfiga, non garbata sfortuna, ma sculo. E mai ritrovarsi col culo per terra, a futura memoria. Cuore di Firenze, cuore popolare: roba da non credere al cospetto della piazza di oggi, che sembra rubata alla Torino dei Savoia. Finché c’è stata la monarchia questa è stata piazza Vittorio Emanuele. In mezzo c’era il monumento equestre al sovrano, sbeffeggia­to dai fiorentini finché ebbero fiato. Però ben altro successe al tempo dei Savoia, anche dopo che la capitale se n’era andata a Roma. Per Firenze fu la questione delle questioni, nella seconda metà dell’Ottocento: polemiche al veleno, accuse da duello, giornali l’uno contro l’altro armati. A confronto l’aeroporto oggi è esercizio da poeti. Questo era l’antico centro, la Firenze medievale: non solo il mercato, ma un ricamo di vicoli e piazzette, di torri e di palazzi. Un tempo vi avevano abitato le nobili famiglie fiorentine, ma era ricordo evanescent­e, testimonia­to a malapena dalle vecchie mura. Per secoli c’era stato il Ghetto degli ebrei. E dopo solo la miseria dei più sventurati dei fiorentini. Il ventre di Firenze: il ventre che oggi non c’è più. Persino dopo il più devastante dei terremoti resta in piedi qualcosa e qualcosa si ricostruis­ce come era. In questo caso è stato come il castello di sabbia che l’onda si porta via: non c’è mai stato, bisogna ricostruir­e dal niente. Risanament­o, lo chiamarono quanti se ne fecero vanto. Gli stessi che presumibil­mente ispirarono quella scritta lassù, sull’arco che unisce i due tratti di portici: L’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito. Sopra una volta c’erano anche i gessi di tre donne, allegorie dell’Italia, dell’Arte e della Scienza. I fiorentini non persero tempo e le ribattezza­rono con i nomi delle più celebri prostitute dell’epoca. Sventramen­to, preferisco chiamarlo io. Perché qualcosa dell’anima di Firenze e dei fiorentini viveva proprio in quei posti che c’erano e ora non ci sono più. Anima senza la quale non restituisc­i vita nuova, semmai soddisfi appetiti, gonfi conti in banca, regali deliri di onnipotenz­a.

(17. Continua)

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La Colonna dell’abbondanza nel 1883

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