Nel centro del centro, dove tutto è cominciato
C’è il gruppo peruviano che da mesi si dà appuntamento qui, con la sua musica delle Ande e il cd venduto a dieci euro. C’è il venditore di aste per selfie e c’è la guida con la sua voce amplificata come per un corteo. (...) Piazza della Repubblica: mi affido alla solitudine che solitudine non è, perché in qualche modo concedo cittadinanza anche agli estranei. Se non altro è questo che dovrebbe essere una piazza. Un luogo dove si incrociano i cammini, dove ci si incontra. Con buona pace delle piazze virtuali. I camminatori, mi viene in mente, si tengono cara la parola strada e fanno bene. Ma non dovrebbero trascurare la parola piazza. Anche a sera, con una tappa che si conclude in qualche centro abitato: prima trovare il posto dove dormire, ma dopo la piazza. È con questo pensiero che mi siedo per qualche istante. Giusto qui, sul piedistallo di questa colonna, dove tante volte ho dato appuntamento. Vediamoci alla colonna di piazza della Repubblica, proprio così. Magari, caro editore, anche noi fisseremo qui, quando capiterai a
Firenze. (...) Ti dirò: vediamoci alla colonna, che poi ci spostiamo a bere qualcosa. E poi toccherà a me proporti dove. Alla terrazza della Rinascente, con la sua vista mozzafiato? All’Hard Rock Cafe, che un tempo era il glorioso cinema Gambrinus, con sotto il seminterrato dei biliardi, covo di biscazzieri e tiratardi? Oppure alla Feltrinelli Red, giusto dall’altro lato della piazza, dove un tempo c’era un altro cinema storico, l’Edison? Alla Red almeno si potrebbe bere con i libri intorno, però mi sa che non sei tipo per nessuno di questi posti. E nemmeno io. Meglio un qualche vinaio, da scegliere con cura, però. Nel frattempo ce ne staremmo per un po’ seduti, proprio sotto la colonna. A presidiare la piazza e ad ascoltare i suoi racconti: perché questo è sicuro, non c’è piazza che non abbia molto da raccontare. E sarai contento di sapere che questa non è una colonna come le altre. È qui, pensa, che si incrociavano il cardo e il decumano, quando i romani decisero di fondare una colonia in queste paludi. Vicino c’era l’Arno, un punto dove il guado era più semplice. Due strade in perpendicolo come per un accampamento di legionari: Firenze nasceva così. Col nome che evocava la gentile dea Flora, ma il tempio dedicato al dio Marte. Che non si sa bene dove fosse, forse dove oggi è il Battistero, ma che per Dante è la ragione stessa del carattere bellicoso dei fiorentini. Siamo nati così, insomma, con la guerra nel Dna. Bisogna farsene una ragione. No, non è una colonna come le altre: perché siamo al centro del centro, perché siamo esattamente dove è cominciato tutto. Molti secoli più tardi i fiorentini le avrebbero dato un nome: la colonna della Dovizia o dell’Abbondanza. Di buon auspicio per la piazza dove ogni giorno si teneva il mercato. Sulla sommità spiccava una statua di Donatello, mentre sul fusto vennero fissati due ferri, che avevano a che vedere con le attività intorno. Uno reggeva la campana che suonava all’apertura e alla chiusura del mercato — un po’ come la Borsa di 130 131 Wall Street. L’altro due catene con collare per esporre al pubblico ludibrio i commercianti disonesti e i debitori insolventi. Sempre meglio, in ogni caso, di quanto era loro previsto all’altro mercato, quello alla Loggia del Porcellino. Ai malcapitati, a braghe calate, si batteva il sedere a ripetizione su una pietra, che ancora oggi si vede. La pietra dell’acculata, appunto, che rimanda a fiorenti e fiorentini modi di dire: non sfiga, non garbata sfortuna, ma sculo. E mai ritrovarsi col culo per terra, a futura memoria. Cuore di Firenze, cuore popolare: roba da non credere al cospetto della piazza di oggi, che sembra rubata alla Torino dei Savoia. Finché c’è stata la monarchia questa è stata piazza Vittorio Emanuele. In mezzo c’era il monumento equestre al sovrano, sbeffeggiato dai fiorentini finché ebbero fiato. Però ben altro successe al tempo dei Savoia, anche dopo che la capitale se n’era andata a Roma. Per Firenze fu la questione delle questioni, nella seconda metà dell’Ottocento: polemiche al veleno, accuse da duello, giornali l’uno contro l’altro armati. A confronto l’aeroporto oggi è esercizio da poeti. Questo era l’antico centro, la Firenze medievale: non solo il mercato, ma un ricamo di vicoli e piazzette, di torri e di palazzi. Un tempo vi avevano abitato le nobili famiglie fiorentine, ma era ricordo evanescente, testimoniato a malapena dalle vecchie mura. Per secoli c’era stato il Ghetto degli ebrei. E dopo solo la miseria dei più sventurati dei fiorentini. Il ventre di Firenze: il ventre che oggi non c’è più. Persino dopo il più devastante dei terremoti resta in piedi qualcosa e qualcosa si ricostruisce come era. In questo caso è stato come il castello di sabbia che l’onda si porta via: non c’è mai stato, bisogna ricostruire dal niente. Risanamento, lo chiamarono quanti se ne fecero vanto. Gli stessi che presumibilmente ispirarono quella scritta lassù, sull’arco che unisce i due tratti di portici: L’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito. Sopra una volta c’erano anche i gessi di tre donne, allegorie dell’Italia, dell’Arte e della Scienza. I fiorentini non persero tempo e le ribattezzarono con i nomi delle più celebri prostitute dell’epoca. Sventramento, preferisco chiamarlo io. Perché qualcosa dell’anima di Firenze e dei fiorentini viveva proprio in quei posti che c’erano e ora non ci sono più. Anima senza la quale non restituisci vita nuova, semmai soddisfi appetiti, gonfi conti in banca, regali deliri di onnipotenza.
(17. Continua)