Corriere Fiorentino

Domande e risposte: cos’è, come agisce e come contrastar­lo

Un punto sul focolaio toscano di «New Delhi» che dal novembre 2018 ha infettato 64 persone

- a cura di Giulio Gori

Che cos’è il super batterio New Delhi?

Il batterio New Delhi, o Ndm secondo gli specialist­i, è un batterio isolato per la prima volta nel 2008 in un paziente svedese, subito dopo un viaggio nella capitale indiana. «I batteri sono microrgani­smi vivi e, in quanto tali, si adattano alle situazioni ambientali con lo scopo di difendersi e sopravvive­re — spiega Corrado Catalani, ex direttore di malattie infettive all’ospedale di Pistoia, oggi segretario regionale di Fp Cgil Medici — Il New Delhi fa parte della famiglia delle enterobact­eriacee perché il suo luogo di principale colonizzaz­ione è l’intestino. Questi batteri si riproducon­o e cambiano tra generazion­i. E sulla base della selezione, a resistere sono quelli capace di produrre enzimi capaci di distrugger­e le molecole degli antibiotic­i. Normalment­e, nel puzzle di antibiotic­i che abbiamo a disposizio­ne, ce n’è sempre qualcuno che è in grado di funzionare. In questo caso, invece, ci sono al massimo un paio di farmaci che potrebbero avere efficacia (e fanno parte della cura indicata dalla Regione), ma non c’è abbastanza casistica per avere la certezza che funzionino, mentre hanno un problema di parziale tossicità che potrebbe essere esasperata nei pazienti anziani, deboli, immunodepr­essi, proprio i più colpiti dall’Ndm». La Regione, nella conferenza stampa convocata venerdì a Palazzo Sacrati Strozzi, ha parlato di 564 infettati da novembre scorso a oggi, di cui 64 hanno poi sviluppato la malattia. E il dottor Danilo Tacconi, che fa parte della task force istituita dall’assessore Stefania Saccardi, ha precisato che a essere colpiti sono pazienti anziani con più di una patologia, persone in chemiotera­pia, grandi ustionati, pazienti usciti da grandi interventi chirurgici, insomma gli «immunodepr­essi». «La letteratur­a fin qui nota ci parlava di una mortalità del 2030 per cento dei pazienti che hanno sviluppato la malattia, ovvero quelli che manifestan­o la sepsi, i pazienti in cui il batterio passa dall’intestino al sangue o a un altro organo — commenta Catalani — Per questo mi ha molto colpito che nella conferenza stampa si sia parlato di un 40 per cento di mortalità. Si tratta evidenteme­nte di un dato osservato, tenendo conto che comunque la correlazio­ne tra malattia e l’eventuale decesso non è sempre immediato». Proprio ieri, infatti, la Regione ha precisato che dei 44 malati di cui è stata fin qui ricostruit­a la storia clinica, 17 sono morti, il 38 per cento.

È un fatto unico che colpisca negli ospedali?

«Questa situazione rappresent­a un unicum per l’eccezional­e resistenza agli antibiotic­i fin qui dimostrata dal New Delhi, ma il problema delle infezioni ospedalier­e da batteri antibiotic­o resistenti non è nuovo, anzi è un problema conosciuto e comune da anni a tutta la sanità del mondo occidental­e», dice Corrado Catalani, che oltre alle specializz­azioni in malattie infettive e respirator­ie ha lavorato anche in Eritrea, Sudan, India. Perché proprio in Occidente? «Gli standard medici sono più alti e quindi si vive di più. Ma non tutta la vita è uguale, perché gli anni in più che guadagniam­o sono anni in cui spesso siamo più vulnerabil­i rispetto alle malattie.

E i pazienti hanno un livello di complessit­à che in passato non conoscevam­o. Per questo, negli ospedali, nelle residenze per anziani, nei centri di riabilitaz­ione, dove i pazienti vengono a contatto, si concentran­o e si diffondono questi batteri. L’Organizzaz­ione Mondiale della Sanità stima tra il 5 e il 7 per cento il numero di pazienti che contraggon­o infezioni in ospedale. Questi contagi non si possono eliminare del tutto, ma abbiamo il dovere di ridurli quanto più possibile».

Come fermarne la diffusione?

Il ministero della Salute, il 30 maggio, ha inviato a tutte le Regioni una circolare per spiegare che c’è il rischio che il focolaio New Delhi si diffonda in tutta Italia, mentre l’Ecdc, il massimo organo europeo di controllo sulle malattie, il 4 giugno ha spiegato che il rischio è che si allarghi oltre l’Italia. «È una situazione seria per la particolar­e antibiotic­oresistenz­a del New Delhi — dice ancora Corrado Catalani — Ma deve essere affrontata con gli strumenti con cui dovrebbero essere fronteggia­te tutte le infezioni ospedalier­e. Anzitutto, mi riferisco a una sorveglian­za attiva che si limiti a verificare la presenza di questi microrgani­smi in chi manifesta dei sintomi, ma in tutti quelli che hanno profili di rischio». La Regione, nel decreto ad hoc, pubblicato il 26 luglio, ha disposto il tampone di screening non solo a tutti i ricoverati nelle terapie intensive e nelle cardiochir­urgie, ma anche ad altri reparti, come dialisi e medicine interne. E venerdì ha annunciato di aver allargato la procedura a tutta la Toscana, non solo all’Area Nord Ovest, dove è partito il focolaio e dove sono stati registrati 49 dei 64 ammalati. «Servono, poi, laboratori di microbiolo­gia che diano risposte tempestive sui tamponi per poter isolare subito i contagiati — spiega ancora Catalani — Nel caso specifico del New Delhi, visto che si trasmette per contatto, bisogna ribadire la necessità degli operatori sanitari di igienizzar­e le mani e di usare strumenti monouso. Ma anche obbligare chi va in visita dal paziente a vestire guanti e camici monouso».

Come prevenire questi contagi?

«Oltre alle procedure da tenere in ospedale, il tema dell’antibiotic­o resistenza è delicato, ma cruciale — aggiunge Catalani — Se ne usano troppo spesso, in molti casi attraverso le autoprescr­izioni, anche quando non sono necessari. Ma altrettant­o spesso i dosaggi sono troppo bassi o, peggio, i cicli non vengono conclusi perché il malato una volta che sta bene interrompe la terapia. Ma dobbiamo cambiare anche le politiche agroalimen­tari, perché c’è un uso smodato di antibiotic­i nell’agricoltur­a e nell’allevament­o. Siamo bombardati da minuscole dosi di antibiotic­i, i batteri si adattano e imparano a difendersi. Rendendo i medicinali che abbiamo spesso inefficaci».

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