Pupo: la nuvola su di noi, per Antognoni-Martina
Pupo e il terribile scontro tra Antognoni e Martina: «Tutto il Franchi si bloccò, come in un fermo immagine»
Enzo Ghinazzi non ha la commozione facile. Gli anni e le storture della vita lo hanno reso di ghiaccio, ma anche i tavoli del gioco d’azzardo hanno contribuito. È difficile far venire gli occhi lucidi a Enzo Ghinazzi, perché qui non possiamo chiamarlo Pupo: questa è una storia di vero amore e vero dolore. E di pallone. L’unico che ci riesce sempre, ancora dopo 40 anni, è Giancarlo Antognoni. Non è solo un amico, «un fratello quasi», dice. È l’uomo che, «quasi morendo», gli ha cambiato la vita.
La partita del cuore di Enzo Ghinazzi in arte Pupo è quel drammatico Fiorentina-Genoa del 22 novembre del 1981. Quando Silvano Martina si schiantò contro il corpo dell’Unico Dieci. E il suo cuore smise di battere. Quel giorno la vita del cantante di Ponticino è cambiata per sempre. Così è come giudica il se stesso di prima: «Distaccato, arrogante. Per ignoranza, inconsapevolezza. Dissacrante, snob, disincantato. Mi circondavo di yes-men perché volevo sempre sentirmi dare ragione. Ero giovane, avevo successo, donne, miliardi… E la frittata è fatta».
Enzo Ghinazzi parla di quel se stesso come di una persona dominata da «quella parte che non mi è mai stata simpatica». Un egocentrico baciato dal successo di un disco, Su di
noi, improvviso e clamoroso. E il prossimo anno festeggerà i 40 anni di quella canzone a Sanremo con uno speciale in tv. Oggi è un’altra persona: generoso, aperto, umile. Un Pupo maturo. Capace di fare un grande lavoro di trasformazione. Tra questi «due Pupo» lo spartiacque è fissato nella sua memoria emotiva come un tatuaggio. Enzo è un tifoso viola sfegatato fin dall’infanzia. Quella domenica 22 novembre siede in tribuna al Comunale, ospite del presidente Flavio Pontello. La Fiorentina di Picchio De Sisti riceve il Genoa. Giancarlo Antognoni è in stato di grazia: si mangia gli avversari uno dopo l’altro, offre a Bertoni il fenomenale assist per l’1-0 al 24’, danza sul pallone, realizza il 2-1 dal dischetto dopo che Ciccio Graziani era stato atterrato in area. Poco dopo si lancia in avanti a inseguire il lancio in area di Bertoni, va per colpire di testa e il portiere avversario, Martina, si lancia su di lui a pugni chiusi e ginocchia al petto: «Mi mancò il respiro. Panico — ricorda Pupo — mi tornò subito in mente quando poche settimane prima avevamo tirato insieme due calci al pallone al campetto del Galluzzo». Enzo si alza in piedi e trattiene il fiato. Antognoni è a terra, gli spalti si ammutoliscono. Gentile si mette le mani in testa, Onofri piange. Urla: «È morto, è morto». Niente polso. «Uno dei momenti più drammatici mai vissuti in un campo di calcio, 30 minuti durati un’eternità…»
Anche il suo cuore si ferma. «Dalla paura». «Antonio giocava da Dio e la Fiorentina combatteva testa a testa con la Juventus per lo scudetto. Ricordo quella ginocchiata sul petto, poi alla testa. Scoppiammo tutti in lacrime. E durante il massaggio cardiaco rimanemmo bloccati come in un fermo immagine. Pur essendo ateo, ho pregato per lui. Ho pensato: Antognoni no, non lui, non può accadere. Poi il silenzio nell’attesa di un cenno dal campo. Ancora oggi provo un brivido misto di gioia e liberazione. Non dimenticherò mai i suoi occhi incrociati mentre emetteva bava dalla bocca. Dopo, il niente. Non ricordo niente. Nemmeno il risultato finale della partita». Ce lo ricordiamo noi: la Fiorentina vince 3-2. Ma quella partita, da quell’episodio in poi, era praticamente finita. «Già c’era un’aria strana per colpa della sconfitta col Cesena» prosegue il cantante nella sua opera di scavo tra i ricordi. «Ma credevamo davvero che avremmo vinto lo scudetto».
Era sempre allo stadio, invitato dalla società, postazione vip. «Quel giorno portai con me un amico juventino. Stava buono, zitto: Marco Massino, ex fornaio di Ponticino, il mio paese in provincia di Arezzo, all’epoca mio road manager. Poi ha fatto carriera lavorando con De André».
Verrebbe da chiedersi perché portare un tifoso bianconero al Franchi. E qui interviene l’immagine che ha dato di sé all’inizio: «All’epoca la mia situazione sentimentale era molto delicata — prosegue il racconto — mi stavo lasciando con mia moglie, anche se oggi stiamo ancora insieme. Fu un anno pazzesco: ero appena passato da ragazzo di paese a miliardario, vivevo sempre sul Concorde tra Parigi, Londra, il Madison Square Garden a New York, a Nashville con Reverberi a registrare Lo devo solo a te». Un periodo di «grandissima leggerezza» dove «si spendevano soldi con una facilità che… non trovo le parole». Milioni di lire in una sola sera. «Mentre oggi, se ci penso, rimango basito dal fatto che pure nel mio settore si viviseziona ogni singolo euro». Allora si sentiva «come un ragazzino che vuole spaccare tutto. Non sapendo che poi qualche anno dopo avrei dovuto farci i conti, come è successo a tutti. E trovare un assestamento. Per questo ero di un’arroganza che non riesco nemmeno a descrivere. E mi portavo sempre dietro i miei yes-men. Come in quel caso, per farmi compagnia, anche se era juventino. In fondo a Ponticino sono tutti juventini… e comunisti».
Anche questa è una bella storia: interseca geografia, calcio e politica. «Come tifoso viola divido la mia vita in un prima e un dopo quella partita». Partiamo dal principio: «Mio babbo Fiorello era il postino di Ponticino, tifoso viola e missino, poi democristiano. Mio nonno era fascista. Avevamo appiccicato addosso un’etichetta perché in paese erano tutti di sinistra e tifosi della Juventus. La mia fede viola è sempre stata contrastata, io anima guelfa in terra di ghibellini. Con Firenze stampato nel Dna». Ma un giorno del 1964, aveva nove anni, successe una cosa «di cui mi sono pentito per tutta la vita: mi sono “venduto” a un tifoso del Bologna». È Clelio Lipparini, guardia-diga alla Penna durante l’alluvione del ’66. «Un amico, tifoso del grande Bologna che vinceva gli scudetti in quel periodo. Mi portò una maglietta con la 10 di Helmut Haller, campione incredibile. Disse che me l’avrebbe regalata se avessi rinnegato il tifo per la Fiorentina a favore del Bologna. Risposi che sì, diventavo bolognese anch’io. Mi sono sentito corrotto per… una maglietta. Ero salito sul carro dei vincitori. Mamma mia se me ne sono pentito, sono stato malissimo. Per fortuna sono tornato presto alla viola e dopo il 22 novembre 1981 mi è tornato alla mente quel fatto del ’64 come se stessi pagando il mio antico tradimento. E sono stato ancora più viola che mai».
❞ Nel 1981 giravo il mondo e spendevo milioni di lire anche in una sola serata, ma quell’episodio cambiò radicalmente il mio modo di vedere la vita