La «pazzia» di Machiavelli
Il Segretario fiorentino secondo Michele Ciliberto, il 25 ospite de «La Colombaria» «Esaltò sempre il valore della ragione, ma davanti alla crisi fu favorevole a interventi estremi»
Il titolo dell’ultimo libro di Michele Ciliberto
Laterza) sembra fatto apposta per stimolare interrogativi. Machiavelli «pazzo»? Proprio lui, il pensatore lucido e spregiudicato, lui tutto ragione e chirurgica freddezza nel guardare alla realtà così com’è, lui, il fondatore di una spietata scienza politica che non lascia il posto ai sentimenti e che, all’occorrenza, legittima menzogne e tradimenti? Non ci si può credere. Parole come «machiavellico» e «machiavellismo» hanno a che fare con i lasciti di un’astuzia sopraffina e priva di scrupoli: dobbiamo rivederle?
«Non bisogna confondere Machiavelli con le troppe immagini consolidate dello studioso cinico che elabora una pura tecnica del potere all’insegna della massima-tormentone “il fine giustifica i mezzi” — riflette il professore che il 25 settembre aprirà con Machiavelli il ciclo di letture Le rivoluzioni del pensiero all’Accademia La Colombaria di Firenze — Indubbiamente siamo di fronte a un analista rigoroso e disincantato dei rapporti di forza ma ritiene che Firenze e l’Italia si trovino di fronte a una situazione così drammatica da richiedere interventi che vadano al di là dei canoni ordinari della ragione: interventi “estremi”, “eccessivi”, “pazzi”, capaci insomma di misurarsi con la crisi. Ovviamente non si tratta di fare le cose in modo insensato, ma di adottare nuove strategie che tengano conto della complessità e della imprevedibilità del reale».
Intendiamoci: Machiavelli, non dimentica mai e continua ad esaltare il valore della ragione, della capacità di intendere, osservare, discriminare, intraprendere una strada e decidere con l’attenzione rivolta alle varie opportunità offerte dalla storia. Eppure, come rileva Ciliberto, in lui c’è dell’altro: c’è uno slancio visionario che ha tratti profetici, c’è una voglia di dire, di fare, di consigliare che lo tengono in uno stato di costante ebollizione di fronte alle sorti della Penisola dove Virtù e Fortuna mescolano continuamente le carte. Sogna, disegna scenari futuri, sfida le opinioni dominanti, con la passione di un innamorato che si agita in preda a una sorta di febbre. È «pazzo» e «azzarda».
«Machiavelli — osserva Ciliberto — non è Spinoza. È lontano dall’idea di una natura regolata. Non disegna figure geometriche in cui imbrigliare il reale. La sua categoria è la vita, col carico, appunto, di imprevedibilità, non rapportabile a criteri di previsione di carattere ordinario». Questa attenzione alla straordinaria ricchezza della «vita» è un tratto caratteristico del Rinascimento. E Ciliberto, ad esempio con i suoi studi su Giordano Bruno, è da
❞ L’uomo deve far di tutto per contrastare i colpi della Fortuna e la pazzia è il modo per confrontarsi con tutto questo
sempre attento al contraddittorio tumulto di idee, aspirazioni e pulsioni che caratterizzano il Quattro e Cinquecento. Insomma, se parlando di Rinascimento, si mette al centro il concetto di modernità e se ne fa un’epoca che precorre l’Illuminismo, non se ne coglie la ricchezza, fatta di tanti aspetti contrastanti, tra cui, ad esempio, quelle tematiche alchemiche, magiche, astrologiche che i fautori della «modernità» hanno sempre considerato un oscuro retaggio medioevale. Machiavelli, però, non si interessa a queste discipline. O, da letterato ci scherza. Lui è tutto preso dalla politica. Ma quale? Quella che ha che fare solo con la ragione? E allora la Virtù e la Fortuna? «La Fortuna è una potenza straordinaria di cui non possiamo prevedere i movimenti — riflette Ciliberto — È più forte della virtù, ti sorprende di continuo, l’uomo deve far di tutto per non soccombere, per contrastare i suoi colpi. E la pazzia è il modo per confrontarsi con tutto questo». Ma nulla a che fare con la «follia cristiana» di Erasmo da Rotterdam: qui c’è una sorta di acceso militante che insegna che ragione, prudenza ed esperienza non bastano, perché la cose mutano di continuo. Questo è il Machiavelli «plurimum estravagante di opinione et inventore di cose nuove et insolite», di cui parla l’amico Guicciardini. Questo è il Machiavelli «pazzo», che vede con chiarezza tutti i segni della crisi che sconquassa l’Italia, ma non si arrende. «Le soluzioni fuori dal comune — nota Ciliberto — rientrano nello spazio aperto dell’eccezione, se si vuole dell’ azzardo, non in quello conosciuto e sperimentato della norma».
Sempre stato «pazzo» il nostro Machiavelli. Quando i Medici rientrano a Firenze e danno il benservito all’attivissimo Segretario fiorentino, costretto ad andarsene esule nella sua casa di San Casciano, lui brucia dalla voglia di tornare. Non gli basta occuparsi della famiglia e dei poderi, giocare a carte all’osteria con contadini e carrettieri, tornare poi a casa e mettersi a leggere gli autori classici. «Machiavelli è convinto che gli antichi ci trasmettano una lezione di vita fondamentale. Ma le cose non si ripropongono allo stesso modo. Quello che avviene nel ciclo storico è sempre diverso. La realtà è eccessiva». A San Casciano patisce come uno sconfitto pieno di ferite. Vorrebbe continuare a far politica, ma i Medici non lo vogliono. E lui che, come segretario fiorentino aveva già detto con passione la sua su quel che si doveva fare, scrive Il Principe, per servire lo Stato. «È un testo che propone mezzi estremi per contenere la crisi italiana. Il mondo è cambiato. Si sono trasformate le forme della guerra. Quest’arte deve essere aggiornata, come quella della politica. Gli esempi dei maiores contano, ma Il Principe, volpe e leone, deve essere in grado di affrontare i tempi nuovi. È fondamentale la conoscenza della natura umana. E l’uomo di Machiavelli non è in cammino per diventare Dio, come quello di Ficino, ma è una ‘bestia’ ». E «il Principe tiene a bada la bestia attraverso la politica. Ma, appunto, è volpe e leone, e sa che la politica non obbedisce ai Pater Noster».
Ma c’è chi ha parlato di religiosità in Machiavelli… «Io — conclude Ciliberto — penso che sia estraneo alla tradizione cristiana. Conosceva la Bibbia ma il suo maestro è Lucrezio, e ricopia dai codici tutto il De Rerum Natura. Certo, nell’Esortazione a liberare l’Italia dai barbari, con cui si chiude il Principe, si può cogliere un lessico di natura religiosa, che esprime una speranza estrema. Ben vengano la Chiesa e papa Clemente VII se vogliono salvare l’Italia».