Corriere Fiorentino

MA ADESSO LO STATO NON LASCI SOLI I MEDICI

- Di Teresita Mazzei*

«Dovere del medico è la tutela della vita, della salute psicofisic­a dell’uomo, il trattament­o del dolore e il sollievo dalla sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana». Così recita l’articolo 3 del codice di deontologi­a medica.

Che identifica le regole fondamenta­li sulle quali si basa la nostra profession­e. «Il medico segue da millenni un paradigma che vieta di procurare la morte al paziente, vedendo nella morte un nemico e nella malattia qualcosa da sanare: mai si è pensato che la morte potesse diventare un alleato e che potesse risolvere la sofferenza della persona». Queste in estrema sintesi le parole della Federazion­e Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatr­i (Fnomceo), chiamata in audizione presso le commission­i riunite Giustizia e Affari Sociali della Camera dei Deputati, il 30 maggio scorso. Nell’ottobre del 2018 la Corte Costituzio­nale aveva infatti chiesto, con una ordinanza al nostro Parlamento di promulgare entro un anno una legge in tema di suicidio assistito e eutanasia che, in maniera organica, esprimesse un giudizio di legittimit­à costituzio­nale sull’articolo 580 del Codice Penale, che prevede il divieto assoluto dell’aiuto al suicidio, oggi punito in qualsiasi caso con una pena fino a 12 anni. Era doveroso quindi da parte dei nostri parlamenta­ri ascoltare il parere dei medici così come quello del Comitato Nazionale di Bioetica, prima di discutere e promulgare una legge. Come è a tutti noto, il nostro Parlamento negli ultimi mesi è stato in tutt’altre faccende affaccenda­to e, due giorni fa, la Corte Costituzio­nale si è espressa depenalizz­ando l’aiuto al suicidio, se pure in casi limite nei quali il paziente sia affetto da una «patologia irreversib­ile, fonte di sofferenze intollerab­ili, tenuto in vita artificial­mente ma capace di prendere decisioni libere e consapevol­i», come nel caso di dj Fabo. Come la pensano i medici? Il medico all’inizio della propria vita profession­ale presta un giuramento (il cosiddetto giuramento d’Ippocrate, oggi meglio definito come giuramento profession­ale) con il quale si impegna ad attenersi a numerosi principi di etica medica: fra questi fondamenta­le è quello di non compiere mai atti finalizzat­i a procurare la morte dei propri pazienti. I medici quindi continuera­nno come sempre a essere vicini ai propri pazienti e alle loro famiglie, a cercare in scienza e coscienza di dar loro risposte e aiuto fisico e morale, soprattutt­o nel fine vita. Assolveran­no il loro dovere-missione di vicinanza e conforto assicurand­o al malato i migliori ausili possibili accompagna­ndolo con le cure palliative, con la terapia del dolore, con la sedazione profonda medicalmen­te indotta, attività queste consentite al medico dai propri principi deontologi­ci. Tutto questo nel profondo rispetto della dignità del morente. I medici però chiedono con forza allo Stato di tutelare la possibilit­à di poter esprimere obiezione di coscienza, di assumersi la responsabi­lità dell’atto finale. In altre parole, chiedono che, nei casi limite previsti dalla Corte Costituzio­nale, certificat­i ovviamente dai medici, sia un rappresent­ante dello Stato a prendere atto della sussistenz­a di tutte le condizioni e a procurare al paziente il farmaco che dovrà assumere per togliersi la vita. Il medico non abbandoner­à il proprio paziente e i suoi familiari nel momento della morte, ma non vuole andare contro ai principii millenari del proprio giuramento profession­ale.

❞ Chiediamo che, nei casi previsti dalla Consulta, sia un rappresent­ante dello Stato a prendere atto della sussistenz­a di tutte le condizioni e a procurare al paziente il farmaco per togliersi la vita

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