L’antenata del punk che fece del make up un campo di battaglia
«Alla delirante città delle lampade ad arco, alle strade chiazzate di corpi, alla stretta sequela di case, abbiamo portato il volto dipinto; il via è stato dato e la pista attende i corridori. Animati da spirito costruttivo, non siamo venuti a distruggere quel che avete edificato, ma a glorificarlo e consolidarlo. Il nostro dipingerci il volto non è una trovata insensata, né un revival, è indissolubilmente legato al nostro modo di vivere e al nostro mestiere».
Nel numero di Natale 1913 della popolare rivista Argus, pubblicata a San Pietroburgo, Ilja Zdanevich (in seguito meglio conosciuto come Iliazd, maestro del libro d’artista, di cui la Nazionale di Firenze realizzò una bella mostra nel 1992) e Michail Larionov pubblicarono il manifesto Perché ci dipingiamo. Nelle strade di Pietroburgo la provocazione era estrema, continua: tutti i membri delle avanguardie proponevano il loro corpo come un campo di battaglia, da trasformare per tramite di abiti insoliti, come quelli sbandierati da Majakovskij, o per via di un make-up estremo. I due estensori del testo, insieme a Natalia Goncharova, consorte e gemella d’arte di Larionov, si presentavano con dipinto il loro numero di casa, proponendo una unione, profetica quanto minacciosa, dell’essere umano con l’abitazione che lo ospitava. La pittrice, da parte sua, sempre radicale nei suoi gesti, si rifaceva alla dichiarazione di Charles Baudelaire in Del dipingersi. «Chi oserebbe assegnare all’arte la sterile funzione d’imitare la natura? Il ritocco del viso non dev’essere nascosto, non si deve cercare di non lasciarlo a vedere; si può anzi mostrare, se non con affettazione, almeno con una specie di candore». Madame Goncharova aveva già fatto sensazione proponendo un Trucco di base per un’attrice futurista, pubblicato in Teatr Karikatura. Avvolta da un cappuccio, nella intensa fotografia di Andrei Sarabianov, esibiva il volto come un reticolo di linee di rossetto, disposte in arcane geometrie. Negli stessi giorni, girava lungo il Nevskij Prospekt David Burljuk, poeta e pittore, azzimato in un completo formale con tanto di cilindro, ma con un rutilante panciotto futurista, e un albero simbolico dipinto con il belletto sulla guancia sinistra. L’artista russa, ribelle, antenata del punk, pioniera della performance, era tra le prime donne a sfidare l’opinione pubblica in modo aperto, frontale, in quegli anni frenetici prima della fine dell’impero zarista, quando Peter’ (nome affettivo di Pietroburgo) divenne la capitale di ogni mirabile e violento eccesso d’arte.
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Il manifesto «Il nostro dipingerci il volto non è una trovata insensata, né un revival, è indissolubilmente legato al nostro modo di vivere»