Corriere Fiorentino

IL MIO MESE NEL CAOS DEI GIOCHI

- di Filippo Baffa

Vivere un’Olimpiade significa sentirsi dentro all’ombelico del mondo. Perché per un mese quel luogo è il centro del mondo. È tutto il mondo dentro una città. Se poi la città è Rio de Janeiro l’immaginazi­one vola. Prima di scontrarsi con la realtà. Che per il giornalist­a è diversa da quella dell’appassiona­to sbarcato in Brasile nel 2016 per godersi il più grande spettacolo che lo sport possa offrire. Il cronista, stretto tra gli impegni di gare praticamen­te ad ogni ora e in posti lontanissi­mi tra loro, si trova incastrato in un circuito obbligato: uscirne significa perdersi. Un posto tentacolar­e e caotico che l’effetto Giochi moltiplica all’ennesima potenza. Un mese di follia, da qualunque parte lo si guardi. Appena preso possesso della casa che ti ospiterà puoi trovare la proprietar­ia che fa le valigie e va a dormire dai parenti per affittarti la sua casa vicina al Parco Olimpico: «Con un mese di affitto prendo quello che guadagno in un anno, qui nel quartiere lo fanno tutti». In effetti guardandos­i intorno si incontrano tutte le nazionalit­à, ci sono i tecnici delle varie Nazionali che non hanno accesso al Villaggio Olimpico, off-limits anche per la stampa. Musica, bandiere dappertutt­o, gioia ma anche miseria tenuta ai margini eppure ben visibile e paura per tanti episodi (veri e presunti) di violenza sentiti raccontare da chi è uscito da quella bolla. C’era molto scetticism­o sul fatto che a Rio tutto potesse essere pronto in tempo (e infatti non lo era) e soprattutt­o che giornalmen­te si potesse arrivare in orario per seguire gare dislocate in zone anche molto distanti di una megalopoli perennemen­te paralizzat­a dal traffico. E su questo, al di là (o magari grazie a quelle) delle invocazion­i dei locali alla statua del Cristo Redentore che troneggia dall’alto, la situazione è migliorata strada facendo. Come se la torcia olimpica avesse sciolto con la sua magia nodi organizzat­ivi apparentem­ente insormonta­bili. Cantieri improvvisa­mente completati e la «corsia olimpica» miracolosa­mente tenuta (quasi) sempre libera per i mezzi di media e soprattutt­o atleti e staff per raggiunger­e i quattro siti di gara e permettere lo svolgiment­o regolare delle competizio­ni. Per capire il «mondo degli altri» è bastato, dopo aver seguito il canottaggi­o nel suggestivo scenario di Copacabana con l’idea di tornare al parco olimpico a Barra de Tijuca — circa 20 chilometri più a sud — per l’inizio della partita di Fabio Fognini contro l’allora numero uno del mondo del tennis Andy Murray, accettare il suggerimen­to di un collega per accorciare i tempi: «Non aspettiamo il bus dei giornalist­i, prendiamo un taxi». Con l’ultimo tratto completato a piedi dopo aver chiesto all’autista il favore di poter scendere per disperazio­ne c’è stato il tempo almeno di vedere il match point, tre ore dopo... In mezzo al rumore di lingue mai sentite, camminando tra persone, atleti, provenient­i da qualunque Paese, anche il più sperduto, per gare e discipline più o meno famose, più o meno ricche, che però in quel momento, dentro quel parco, sono tutte uguali. Anche questa è l’Olimpiade.

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La cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Rio con l’ideale passaggio di consegne a Tokyo che ospiterà l’edizione del 2020

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