IL MIO MESE NEL CAOS DEI GIOCHI
Vivere un’Olimpiade significa sentirsi dentro all’ombelico del mondo. Perché per un mese quel luogo è il centro del mondo. È tutto il mondo dentro una città. Se poi la città è Rio de Janeiro l’immaginazione vola. Prima di scontrarsi con la realtà. Che per il giornalista è diversa da quella dell’appassionato sbarcato in Brasile nel 2016 per godersi il più grande spettacolo che lo sport possa offrire. Il cronista, stretto tra gli impegni di gare praticamente ad ogni ora e in posti lontanissimi tra loro, si trova incastrato in un circuito obbligato: uscirne significa perdersi. Un posto tentacolare e caotico che l’effetto Giochi moltiplica all’ennesima potenza. Un mese di follia, da qualunque parte lo si guardi. Appena preso possesso della casa che ti ospiterà puoi trovare la proprietaria che fa le valigie e va a dormire dai parenti per affittarti la sua casa vicina al Parco Olimpico: «Con un mese di affitto prendo quello che guadagno in un anno, qui nel quartiere lo fanno tutti». In effetti guardandosi intorno si incontrano tutte le nazionalità, ci sono i tecnici delle varie Nazionali che non hanno accesso al Villaggio Olimpico, off-limits anche per la stampa. Musica, bandiere dappertutto, gioia ma anche miseria tenuta ai margini eppure ben visibile e paura per tanti episodi (veri e presunti) di violenza sentiti raccontare da chi è uscito da quella bolla. C’era molto scetticismo sul fatto che a Rio tutto potesse essere pronto in tempo (e infatti non lo era) e soprattutto che giornalmente si potesse arrivare in orario per seguire gare dislocate in zone anche molto distanti di una megalopoli perennemente paralizzata dal traffico. E su questo, al di là (o magari grazie a quelle) delle invocazioni dei locali alla statua del Cristo Redentore che troneggia dall’alto, la situazione è migliorata strada facendo. Come se la torcia olimpica avesse sciolto con la sua magia nodi organizzativi apparentemente insormontabili. Cantieri improvvisamente completati e la «corsia olimpica» miracolosamente tenuta (quasi) sempre libera per i mezzi di media e soprattutto atleti e staff per raggiungere i quattro siti di gara e permettere lo svolgimento regolare delle competizioni. Per capire il «mondo degli altri» è bastato, dopo aver seguito il canottaggio nel suggestivo scenario di Copacabana con l’idea di tornare al parco olimpico a Barra de Tijuca — circa 20 chilometri più a sud — per l’inizio della partita di Fabio Fognini contro l’allora numero uno del mondo del tennis Andy Murray, accettare il suggerimento di un collega per accorciare i tempi: «Non aspettiamo il bus dei giornalisti, prendiamo un taxi». Con l’ultimo tratto completato a piedi dopo aver chiesto all’autista il favore di poter scendere per disperazione c’è stato il tempo almeno di vedere il match point, tre ore dopo... In mezzo al rumore di lingue mai sentite, camminando tra persone, atleti, provenienti da qualunque Paese, anche il più sperduto, per gare e discipline più o meno famose, più o meno ricche, che però in quel momento, dentro quel parco, sono tutte uguali. Anche questa è l’Olimpiade.