LE GIUSTIFICAZIONI CHE NON GIUSTIFICANO
Potrebbe esserci qualche motivo in più per cui il caso di Giorgio Pinchiorri, accusato di stalking da una giovane ex dipendente, abbia un’eco mediatica, e non solo, maggiore di quella già assicurata dalla notorietà del personaggio.
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Il riserbo comprensibile (unico caso in cui tale aggettivo può ritenersi giustificato in questa vicenda) dietro al quale l’avvocato difensore di Pinchiorri si è trincerato ha lasciato solo uno spiraglio, attraverso il quale è giunto uno spiffero sul carattere della giovane sommelier: un carattere che sarebbe stato riscontrato come difficile, spigoloso al punto di presiedere a rapporti complicati anche con i colleghi di lavoro. È bene essere chiari: le linee e le tecniche difensive non possono essere sottoposte a giudizi, tantomeno se rischiano di essere azzardati. Il legale che assiste un indagato è un tecnico e solo tecnici possono essere gli appunti mossi alle sue scelte. Non è questo il caso. Ma, indipendentemente da quello che sarà l’esito giudiziario, è probabile che quel soffio leggero possa trasformarsi in una folata di vento forte tra quella che chiamiamo comunemente pubblica opinione, tra le persone che assistono, attonite in verità, alla narrazione di questa brutta storia. E forse può ancor di più nuocere all’immagine del signor Pinchiorri. Il «caratteraccio» di una giovane messa così in difficoltà dal proprio datore di lavoro, al punto di dover cambiare impiego e di non sentirsi tranquilla neanche dopo aver messo una notevole distanza tra lei e l’uomo indicato come stalker, difficilmente può prestarsi a far vedere la vicenda sotto una luce diversa e meno cupa nei confronti del patron della prestigiosa enoteca. Non solo non è un elemento che può originare forme di una specie di «indulgenza» comportamentale nei suoi confronti, ma spinge anzi a interrogarsi su quale effetto possa aver avuto nei ripetuti tentativi di approccio, negli appostamenti, nella grandinata di telefonate e messaggi alla giovane donna. Lui lo avrebbe fatto non perché aveva molto malinteso alcuni atteggiamenti che potevano mostrare disponibilità? O lo ha fatto (anche) perché aveva un brutto carattere o nonostante avesse un caratteraccio? Questo è lecito chiedersi, come è altrettanto lecito rispondere scuotendo la testa e considerando l’intera vicenda ancora meno comprensibile (dove comprendere, non vuol dire condividere). Oppure il fatto di avere un carattere non per forza solare e non proteso al sorriso ad ogni costo è una delle condizioni che incredibilmente sottintendono un incoraggiamento a forzare la mano, un segno di disponibilità a sopportare il vero e proprio assedio al quale la donna sarebbe stata sottoposta? Difficile da spiegare e anche da capire. Eppure, nel linguaggio e nel comportamento di ogni giorno, senza voler giungere a livelli parossistici di un politicamente corretto che induce solo il sorriso, in casi simili si è spesso tentati dallo scavare per cercare qualche improbabile appiglio che spieghi o giustifichi l’operato di chi agisce, e soprattutto cercandolo nelle difficoltà vere o presunte di chi subisce. La lunga e bellissima lettera al Corriere Fiorentino della ragazza che ha affrontato il penoso passaggio in taxi costellato da ammiccamenti e avance dell’autista non può a questo punto non aver suscitato una domanda: cosa avrà pensato l’uomo al volante delle sue giovanissime passeggere? Che erano felici di non dover tornare a casa a piedi nella notte e che lui aveva diritto a farsi pagare un po’ di questa felicità? Che erano imbarazzate e impaurite dalle sue parole inaspettate che lui aveva pronunciato magari solo per rompere il ghiaccio e far loro maldestramente coraggio? Ma possono sembrare plausibili queste spiegazioni? Forse soltanto a chi da solo cerca di darsele. Purtroppo vicende come queste sono ben lontane da scomparire dalle pagine di cronaca e, più importante, dalla vita quotidiana. Tuttavia una piccola lezione la possono dare: non aggiungere danno al danno, anche a se stessi. Ed evitare, insieme, di rendersi pure ridicoli.