LA DROGA DEL LAVORO
Una volta i piloti militari costretti a turni estenuanti nelle azioni di guerra assumevano stupefacenti, prima fra tutte la cocaina, per non essere vinti dal sonno durante il volo. Alcuni, finito il servizio, riuscirono a farne a meno, altri ne rimasero dipendenti anche nella vita civile, come Guido Keller, pluridecorato ufficiale pilota della grande guerra e protagonista dell’impresa fiumana. Più prosaicamente il ricorso agli stupefacenti era molto diffuso fra i liceali nell’imminenza dei terribili esami di maturità gentiliani. La simpamina, venduta sino agli anni ’70 in farmacia come un semplice stimolante, rese possibili i non sempre produttivi megaripassi alla vigilia degli scritti, ma in qualche caso si rivelò rovinosa. Accadde a Mario Verdone, cui un compagno di classe passò una dose equina del farmaco col risultato di trasformargli la prova d’italiano in un incubo. Avere ridotto l’utilizzazione della «droga della sera prima degli esami», costringendo a furor di occupazioni il governo a semplificare gli esami di maturità, è stato forse uno dei rari effetti positivi del ’68. Quello che accade in molti capannoni di Prato fra i dipendenti di aziende gestite da cinesi è però molto più allarmante, perché non si riferisce a un abuso motivato da temporanee esigenze militari o di studio. Secondo gli accertamenti della Benemerita, molti operai utilizzerebbero una metanfetamina chiamata in gergo shaboo per vincere la fatica e il sonno nei massacranti turni di notte cui sono sottoposti. Ci si trova di fronte a un uso istituzionale di stupefacenti, tollerato o forse incoraggiato dai datori di lavoro, che sull’altare della produttività sacrificano la salute e la vita dei dipendenti, perché l’abuso di stimolanti lascia il segno, come dimostrano per altro le scomparse precoci di molti atleti. Si potrebbe obiettare che la consuetudine di «doparsi» in ambito lavorativo non riguarda solo gli operai cinesi o, come a Milano, filippini. Mondo sportivo a parte, da tempo è diffuso lo stereotipo della cocaina «droga dei manager», ma il fatto che l’utilizzo degli stupefacenti si sia «democratizzato», con dosi da 20 euro, non è motivo di consolazione. Come non è motivo di gioia il fatto che il ricorso ad altri stupefacenti siano pratica di molti giovani italiani non in ossequio a una sia pure aberrante mistica della produttività, ma come strumento per colmare un vuoto di valori, per riempire giornate e soprattutto nottate prive di prospettive. In entrambi i casi, in fondo, si tratta di una forma di violenza, dinanzi ai quali chiudere gli occhi sarebbe un imperdonabile errore.