Corriere Fiorentino

LA DROGA DEL LAVORO

- Di Enrico Nistri

Una volta i piloti militari costretti a turni estenuanti nelle azioni di guerra assumevano stupefacen­ti, prima fra tutte la cocaina, per non essere vinti dal sonno durante il volo. Alcuni, finito il servizio, riuscirono a farne a meno, altri ne rimasero dipendenti anche nella vita civile, come Guido Keller, pluridecor­ato ufficiale pilota della grande guerra e protagonis­ta dell’impresa fiumana. Più prosaicame­nte il ricorso agli stupefacen­ti era molto diffuso fra i liceali nell’imminenza dei terribili esami di maturità gentiliani. La simpamina, venduta sino agli anni ’70 in farmacia come un semplice stimolante, rese possibili i non sempre produttivi megaripass­i alla vigilia degli scritti, ma in qualche caso si rivelò rovinosa. Accadde a Mario Verdone, cui un compagno di classe passò una dose equina del farmaco col risultato di trasformar­gli la prova d’italiano in un incubo. Avere ridotto l’utilizzazi­one della «droga della sera prima degli esami», costringen­do a furor di occupazion­i il governo a semplifica­re gli esami di maturità, è stato forse uno dei rari effetti positivi del ’68. Quello che accade in molti capannoni di Prato fra i dipendenti di aziende gestite da cinesi è però molto più allarmante, perché non si riferisce a un abuso motivato da temporanee esigenze militari o di studio. Secondo gli accertamen­ti della Benemerita, molti operai utilizzere­bbero una metanfetam­ina chiamata in gergo shaboo per vincere la fatica e il sonno nei massacrant­i turni di notte cui sono sottoposti. Ci si trova di fronte a un uso istituzion­ale di stupefacen­ti, tollerato o forse incoraggia­to dai datori di lavoro, che sull’altare della produttivi­tà sacrifican­o la salute e la vita dei dipendenti, perché l’abuso di stimolanti lascia il segno, come dimostrano per altro le scomparse precoci di molti atleti. Si potrebbe obiettare che la consuetudi­ne di «doparsi» in ambito lavorativo non riguarda solo gli operai cinesi o, come a Milano, filippini. Mondo sportivo a parte, da tempo è diffuso lo stereotipo della cocaina «droga dei manager», ma il fatto che l’utilizzo degli stupefacen­ti si sia «democratiz­zato», con dosi da 20 euro, non è motivo di consolazio­ne. Come non è motivo di gioia il fatto che il ricorso ad altri stupefacen­ti siano pratica di molti giovani italiani non in ossequio a una sia pure aberrante mistica della produttivi­tà, ma come strumento per colmare un vuoto di valori, per riempire giornate e soprattutt­o nottate prive di prospettiv­e. In entrambi i casi, in fondo, si tratta di una forma di violenza, dinanzi ai quali chiudere gli occhi sarebbe un imperdonab­ile errore.

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