Corriere Fiorentino

La doppia sfida delle imprese che fanno cultura

- Di Giuliano Gasparotti* *Ceo Idea Faktory srl e coordinato­re Kifitalia.it

Caro direttore, sono 2.371 i Comuni, in Italia, che ospitano almeno un museo, dati Istat alla mano, e ci sono città come Roma o Firenze ad averne quasi 200 con un primato tutto toscano di 528, il 29% del totale. Un patrimonio diffuso che è parte essenziale di una industria che pesa in termini economici 95,8 miliardi di euro, in crescita del 2,9%, e che grazie ad un effetto moltiplica­tore dell’1,8% rispetto ad altri comparti connessi quali quello manifattur­iero e turistico, porta a 265,4 miliardi di euro la ricchezza prodotta: il 16,9% del pil. I dati di «Io sono cultura» della Fondazione Symbola dimostrano come la cultura sia motore di crescita economica. Un assunto che pone una duplice sfida: la conservazi­one da un lato e l’investimen­to in capitale creativo dall’altro con tutte le implicazio­ni derivanti dai temi dell’innovazion­e, della formazione e della internazio­nalizzazio­ne. Una strada ancora lunga da percorrere quella della valorizzaz­ione con un ritardo forte rispetto all’Europa. Basti pensare che solo il 30% dei musei offre almeno un servizio digitale on site e on line; una percentual­e che scende all’11% tra le strutture che ne offrono almeno due.

Non mancano gli esempi virtuosi di chi ha compreso che utilizzare le tecnologie più evolute contribuis­ce a radicare la partecipaz­ione, ad innalzare i livelli culturali medi, a diversific­are e qualificar­e l’utenza, portando più visitatori e ricchezza, tuttavia proprio questi dati evidenzian­o i limiti e le contraddiz­ioni che la parola cultura porta con sé.

Una questione di competitiv­ità dei territori e dei centri urbani, in particolar­e, protagonis­ti di un cambiament­o profondo dell’economia e della società.

Mercato, cifre, fatturati e profitti non escludono, infatti, una responsabi­lità sociale di chi fa impresa culturale le cui attività ricadono sul benessere di tutti. Creare, infatti, un ecosistema urbano competitiv­o significa investire su luoghi che attraggano capitali umani e finanziari e, quindi, creino ricchezza.

Una forbice, dunque, che si allarga sempre di più tra città che sanno adeguarsi a linguaggi e strumenti contempora­nei e città che non riescono a guardare oltre la mera conservazi­one dell’esistente. Un gap che può essere una opportunit­à soprattutt­o per il Mezzogiorn­o. Per questo è centrale il ruolo dell’impresa, con tutte le esigenze che questa ha, dall’abbattimen­to di una burocrazia vincolisti­ca paralizzan­te, all’abolizione di sacche di privilegio che escludono i progetti meritevoli per far sopravvive­re «carrozzoni» mangiariso­rse, all’abbattimen­to del carico fiscale per chi investe e crea lavoro. Le responsabi­lità politiche sono evidenti perché si cerca — inutilment­e — di rallentare cambiament­i inevitabil­i, soffocando opportunit­à evidenti. A Lucca Beni Culturali, LuBeC, si discute proprio di questo, nella sua XV edizione dedicata ad Expo Dubai 2020: portare agli occhi del mondo quel Made in Italy che è tra i marchi più conosciuti, con un progetto che avrà un senso solo se non sarà semplice «vetrina» ma laboratori­o di idee a confronto tra le migliori eccellenze nazionali.

Possibilme­nte le più giovani, le più competenti, le più innovative. Così si fa grande un Paese e così si connettono le menti per creare il futuro. «Se fossimo ciò che siamo capaci di fare, rimarremmo letteralme­nte sbalorditi» scriveva Edison.

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